Milano / Malpensa
Il 'Macbeth' riapre La Scala
Con Macbeth si conclude il percorso del Teatro alla Scala dedicato alla cosiddetta “triologia giovanile” di Giuseppe Verdi, iniziata nel 2015 con Giovanna d’Arco, e proseguita nel 2018 con Attila. È un percorso musicale e stilistico che vede una tangibile evoluzione del compositore, che via via si apre ad una sempre maggiore penetrazione psicologica dei personaggi, e anticipa di quasi mezzo secolo la psicanalisi freudiana. Contemporaneamente si distacca sempre più da un Romanticismo accademico per abbracciare, anche qui con diversi decenni di anticipo, il Naturalismo francese e il Verismo. E ancora, è la maturazione della posizione del compositore di Roncole nei confronti del patriottismo.
Macbeth è a tutti gli effetti il punto di svolta definitivo, un momento al di là del quale in Verdi nulla sarà più come prima.
L’opera viene composta nel 1846, anno, tra l’altro, in cui a Venezia va in scena per la prima volta Attila, e viene presentata al pubblico il 14 Marzo nel 1847 al Teatro La Pergola di Firenze. Nonostante l’ambiente fiorentino fosse culturalmente più aperto e predisposto ad accettare forme teatrali e musicali che non per forza si sposavano completamente con la tradizione, l’accoglienza per l’opera di Verdi fu fredda e ricca di malumori. Tanto che il compositore ritirerà l’opera, e ne riscriverà una versione con non numerose ma sostanziali modifiche, e la presenterà quasi un ventennio dopo, il 21 Aprile 1865, questa volta al Théâtre Lyrique di Parigi. Ma anche oltralpe, nonostante Verdi fosse osannato tra i più grandi compositori viventi, il successo tardò ad arrivare.
Posto che parte dell’insuccesso parigino fosse dovuto al campanilismo che affliggeva la classe intellettuale francese, è indubbio che, alla luce dell’accoglienza anche italiana, l’opera effettivamente rappresentava un problema di “gusto” effettivo ed innegabile, tanto che molti critici musicali si spingono nel definirla, non senza ragione, una vera e propria opera d’avanguardia.
In primo luogo il soggetto e la trama; siamo di fronte alla totale assenza di personaggi positivi, di una storia d’amore, dei classici elementi, quindi, che il pubblico d’opera , soprattutto in quel periodo, inevitabilmente si aspetta. Verdi invece vuole, aderendo a Shakespeare più negli intenti che nella trasposizione, porsi un obiettivo etico: sottolineare come il potere non può prescindere dalla responsabilità morale. Siamo infatti ad un anno dai celebri moti rivoluzionari del 1848, che infatuano l’Europa proprio insistendo su una gestione responsabile del potere, contro il sovranismo assoluto e contro la tirannia.
Ma l’assoluta innovazione di Macbeth non finisce qui. In un’epoca di centralità della figura maschile, alla quale, soprattutto nel teatro, è affidata ogni iniziativa di azione, ecco che Verdi propone un’opera, in continuità con quella stessa idea shakespeariana che aveva suscitato altrettanto scalpore nel XVII secolo, di una donna manipolatrice, di efferata malvagità, vera e propria burattinaia del sesso opposto. È Lady Macbeth la vera protagonista malvagia, lei che controlla re Macbeth e lo spinge, alimentando la sua ambizione, verso i più sanguinosi crimini. Macbeth è ambizioso, si, ma timoroso e insicuro; una psiche fragile, che controllata da una manipolatrice, diventa emblema stesso della violenza. Arriviamo quindi all’altro grande tema, che già in alcune opere precedenti era emerso, ma che ora compare in tutta la sua forza; non è un caso, invero, che Freud, nel suo testo su Shakespeare, dedichi un intero capitolo a Macbeth. L’opera, così come il testo originario, è il racconto della degenerazione di una psiche, il che fa della composizione un’”opera psicanalitica” a tutti gli effetti. Macbeth è ambizioso, ma tormentato. Dal passato, perché i crimini compiuti lasciano un segno nella sua coscienza, e il senso di colpa freudiano lo divora dall’interno sempre di più, costellando l’opera di visioni. Ma tormentato anche dal futuro! E qui veniamo dunque all’ulteriore grande novità dell’opera: il tema del fantastico. L’elemento irrazionale/soprannaturale, tanto amato anche in quel periodo dal teatro tedesco (basti pensare a Lohengrin di Wagner o Franco Cacciatore di Weber) era al contrario totalmente sconosciuto in Europa e anzi, spesso osteggiato dal razionalismo positivista della classe intellettuale ottocentesca. Verdi invece non solo lo inserisce, ma ne fa un elemento centrale. In una lettera al suo impresario, lo rimarca senza possibilità di dubbio: i protagonisti sono Macbeth, Lady Macbeth e le streghe! Tre erano le streghe in Shakespeare, come tre erano le Moire nella religiosità greca, che diventano tre gruppi di 6 streghe in Verdi, e rappresentano il soprannaturale. Esse vaticinano, e danno vita alla seconda ossessione di Macbeth, appunto quella per il futuro. Macbeth ha paura del domani, e deve ricorrere sempre di più alle streghe, appellandosi ad ogni singolo elemento di previsione, che gli possa infondere sicurezza e determinatezza. Seppure trattato in termini contingenti e drammaturgici, è un tema quanto mai attuale; basta guardare ai dati sulla diffusione degli psicofarmaci tra le nuove generazioni per capire come la paura per il futuro e il bisogno di rivolgersi alle “streghe” sia tutto tranne che un elemento superstizioso di una società lontana da noi. “Santoni”, veggenti, negromanti, ma anche ansiolitici, antidepressivi, calmanti, forniscono il ritratto di una società ossessionata dal futuro e dall’incertezza per il domani. Macbeth farà di questa ossessione il motivo della sua caduta, disseminata di sangue e violenza, unicamente in risposta alla paura. L’ossessione per il passato e l’ossessione per il futuro gli toglieranno letteralmente il sonno, fin dall’inizio dell’opera; e Verdi lo dichiara subito all’ascoltatore, quando dopo pochi minuti dall’inizio del I atto, in seguito al primo assassinio, quello di re Duncan, Macbeth esce insanguinato dalla stanza cantando “tutto è finito!”; perché effettivamente per lui tutto è finito. Ha superato un punto di non ritorno, si è privato del sonno, si è gettato in pasto alle sue ossessioni, che lo porteranno alla distruzione della sua psiche, e del proprio “Io”. Dall’altra parte, Lady Macbeth, continuamente svegliata dall’insonnia del marito, che invece essendo la mente, è priva di ogni connotazione sanguinaria, dorme beata. Dorme, finché anche la sua psiche inizierà a cedere. E soccomberà proprio per “una macchia”, che vedrà sulle sue mani, nella celebre scena del sonnambulismo. Entrata in contatto diretto con il sangue, frutto del suo macchinare, ecco che crolla, e muore, paradossalmente proprio di insonnia! Il tema del sonno è centrale, così come centrale è in Freud la mancanza di sonno e il peso del senso di colpa.
In scena questo 7 dicembre vedremo la versione del 1865, la più celebre e quella più conforme al volere finale di Verdi, intrisa soprattutto nella negativa visione politica della “patria oppressa” che abbraccia il compositore nella sua maturità. Ma in questa versione il Maestro Riccardo Chailly ha voluto inserire la morte in scena di Macbeth (“Mal per me che m’affidai”) che Verdi nel ‘65 elimina dalla precedente stesura; inserimento giustificato dal punto di vista drammaturgico-musicale, e che dà un’enorme forza espressiva ad uno dei personaggi più malvagi e tormentati del Teatro Musicale.
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