Milano / Malpensa
Sgarbi e l'arte di Caravaggio
Con l’intento di far conoscere a tutti la travolgente modernità del grande artista milanese Michelangelo Merisi, noto come ‘Caravaggio’, venerdì 1 aprile, per l’inaugurazione della spettacolare mostra del pittore Sergio Marin, la presenza a Marcallo di Vittorio Sgarbi, critico e storico dell’arte, ha contribuito a far comprendere come Caravaggio sia riuscito a rappresentare la realtà così come gli si presentava, senza alcuna gerarchia nella scelta dei soggetti né alcuna idealizzazione. Attraverso l’osservazione e il confronto di numerose slide, Sgarbi ha illustrato diverse opere, ad esempio facendo notare le differenze tra le due versioni della ‘Cena in Emmaus’. La prima, dipinta nel 1601-1602, con Gesù, l’oste e i due discepoli immersi in un clima festoso, con la tavola imbandita; la seconda, più spoglia, con le figure avvolte nella penombra, dipinta nel 1606, successiva all’uccisione di un uomo durante una rissa, comunica i turbamenti e l’inquietudine in cui è sprofondato l’artista. Un confronto riportato nel libro di Sgarbi, ‘Ecce Caravaggio’, che mette in luce la scoperta della grandezza del pittore, avvenuta solo dopo gli anni quaranta/cinquanta del Novecento, a partire dal maestro Roberto Longhi e dal suo allievo Pier Paolo Pasolini. In quegli anni, dopo le lotte partigiane, Caravaggio veniva considerato il pittore del popolo, proprio per la scelta dei soggetti dalla strada, nella realtà quotidiana, anche dove non compariva la figura umana, come nella celebre ‘Canestra di frutta’, simbolo dell’umanità e del tempo che passa. Caratteri che si ritrovano in moltissime sue opere, come nella ‘Vocazione di San Matteo’, in cui è rappresentata una locanda con i muri scrostati, e nella ‘Madonna dei pellegrini’, con il primo piano dei piedi sporchi dei pellegrini. Nel secondo libro presentato da Sgarbi, ‘Il punto di vista del cavallo: Caravaggio’, il riferimento è al dipinto della ‘Conversione di San Paolo’, dove protagonista non è il santo, ma il cavallo. Di estrema modernità, come nell’opera ‘Davide con la testa di Golia’, dipinta nel 1609-1610, poco prima della sua morte a Porto Ercole, una specie di autoritratto per l’artista, che ha rappresentato se stesso non in Davide, che non vi appare trionfante ma triste (perché per vincere ha dovuto uccidere), ma in Golia, il cattivo che è diventato vittima, in quanto soffre il suo senso di colpa. “Un significato di assoluta contemporaneità, nel momento che stiamo vivendo - ha commentato in conclusione Sgarbi – perché in guerra non ci sono mai vincitori né vinti”.
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