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"Paolo e il suo sogno d'amore"

Il 19 luglio 1992 la strage di via D'Amelio, dove venne ucciso Paolo Borsellino (e con lui i 5 agenti della scorta). Ieri (27 febbraio), all'auditorium Paccagnini, la toccante testimonianza del fratello Salvatore. Emozioni e ricordi, nel segno dell'amore verso il proprio Paese.
Castano Primo - Salvatore Borsellino sul palco dell'auditorium Paccagnini

Quelle due parole che sono risuonate forti e chiare da una parte all'altra dell'auditorium Paccagnini: amore e sogno. Le ha ripetute più e più volte nel corso della serata, agli studenti del Consiglio comunale dei ragazzi e delle ragazze, lì sul palco insieme a lui, e, poi, alle tante persone presenti in sala. L'amore e il sogno di un'Italia diversa, migliore, di un Paese dove prima di tutto doveva esserci la legalità; l'amore e il sogno che suo fratello, Paolo (Borsellino), ha portato avanti con tenacia, determinazione e carattere, sempre, ogni singolo istante della sua vita, fino a quel tragico 19 luglio del 1992 quando è volato via, morto ammazzato in un terribile attentato sotto casa della madre, in via D'Amelio a Palermo. Paolo che oggi non c'è più, ma Paolo che continua a vivere nei cuori e nei ricordi di ciascuno di noi e lo fa attraverso la testimonianza del fratello Salvatore. "Perché questo ci fece promettere nostra mamma il giorno dopo la strage. Ci chiamò, a me, a mia sorella Rita ed ai figli che le restavano e ci disse: adesso dovete andare dappertutto, dovunque vi chiamano, per non fare morire il sogno di Paolo. E noi lo abbiamo fatto e andiamo avanti a farlo; Rita fino all'anno scorso, quando se ne è andata anche lei, è andata a raggiungere Paolo. Così, alla fine, di quattro fratelli che eravamo sono rimasto solo io, però non mi sento meno forte, perché prima avevo solo Paolo nel cuore, mentre ora devo parlare pure per mia sorella...". E, ieri sera, allora, eccolo proprio nel nostro territorio, a Castano Primo. La voce rotta dalle emozioni e nella testa le immagini, tante, tantissime. "Vorrei raccontarvi di mio fratello partendo dalla sua ultima giornata, quella domenica di luglio del 1992. Paolo si alzava sempre presto, ricordo quando eravamo ragazzi, dormivamo in due stanze vicine, studiavamo in due tavoli vicini e lui all'alba era già in piedi, perché come ripeteva "Mi alzo alle 5 per fregare il mondo con due ore di anticipo". Ma in quel periodo non si svegliava presto per fregare il mondo, bensì perché doveva fare in fretta (una frase che ribadiva in continuazione). 57 giorni prima, infatti, avevano ucciso suo fratello (Giovanni Falcone). Già, suo fratello, perché vedete io sono figlio dello stesso padre e della stessa madre, però questo non basta per essere fratelli. Certo, lo eravamo anagraficamente, ma per esserlo veramente serve altro, bisogna avere avuto gli stessi sogni, bisogna avere combattuto le stesse battaglie, ed è quello che hanno fatto entrambi. Due bambini nati nello stesso quartiere (quello della Kalsa, uno dei più poveri di Palermo), a poca distanza l'uno dall'altro. Un anno di differenza, si erano incontrati da piccoli, per poi rivedersi all'università, alla facoltà di giurisprudenza, diventando, successivamente, magistrati e condividendo, infine, la stessa morte. Castano Primo - Salvatore Borsellino durante l'incontro Perchè uccidere Giovanni senza uccidere Paolo, non sarebbe servito a niente. Mio fratello, alla fine, sapeva che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. Quella mattina, allora, si era alzato, se ne era andato al suo tavolo e aveva cominciato a scrivere una lettera per dei giovani di un liceo di Padova. Lui amava incontrare i ragazzi, aveva una grandissima fiducia in loro e avrebbe dovuto recarsi proprio in quella scuola, ma non gli era stato possibile, in quanto dopo l'uccisione di Giovanni non aveva avuto un attimo di respiro. Un momento era qui, il momento dopo era da un'altra parte, per interrogare le persone che avevano iniziato a collaborare. Così, seduto alla scrivania, aveva preso appunto la lettera che gli studenti gli avevano fatto recapitare, dove gli facevano dieci domande, per rispondere. Carta e penna in mano, aveva cominciato a scrivere: uno e la risposta, due e la seconda, tre e la terza, fino al quattro, con una parentesi e poi niente più, perché in quell'istante aveva ricevuto una telefonata da parte del suo capo…”. Paolo Borsellino era venuto a conoscenza qualche giorno prima dal ministro Scotti, per caso in aeroporto a Roma, di un’informativa dei carabinieri nella quale si comunicava che era arrivato in città un potente esplosivo che sarebbe dovuto servire ad ammazzarlo… “Potete benissimo immaginare la sua reazione. Ma questo non lo aveva di certo fermato. Mio fratello credeva in quello che faceva; ci credeva per cercare di dare un mondo migliore e diverso ai suoi figli ed a tutti i giovani che tanto amava. Ci sono alcuni passaggi della lettera indirizzata all’insegnante degli alunni del liceo di Padova che spiegano molto bene chi era Paolo. “Oggi non è certo il giorno per risponderle – così scriveva – Perché la mia Palermo si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare, purtroppo, nemmeno ai miei figli che dormono quando esco da casa e al mio rientro sono già a letto”. Questa era la sua vita in quelle giornate. Una vita fatta di dedizione, impegno, passione, così come era stato fin da giovane. Lui che amava la sua terra e che alla sua terra aveva deciso di dedicare il suo tempo, occupandosi di criminalità mafiosa. L’amore, già, la sua grande forza che l’ha accompagnato e guidato. Pensate che cosa diceva l’ultimo giorno di vita, quando, lo ripeto, sapeva che il momento di andarsene per sempre si stava avvicinando: sono ottimista! Che cosa significa ottimismo in una persona che sa di dover morire? E’ pazzo, avremmo pensato tutti di fronte ad una simile affermazione. No, non era pazzo, perché quell’ottimismo aveva un significato profondo. Paolo era ottimista, perché vedeva che verso la criminalità mafiosa i ragazzi (siciliani e non) avevano iniziato ad avere un’attenzione ben diversa dalla colpevole indifferenza che lui mantenne fino ai 40 anni. Si accusava personalmente, insomma, di indifferenza, per il fatto che fino al 1980 si era occupato, non di mafia, non di giustizia penale, bensì di civile, e questo gli bastava per muovere critiche nei confronti di se stesso”. Un esempio per le generazioni di ieri, per quelle di oggi e per le future, dunque; Paolo e Giovanni, simboli di un Paese che vuole cambiare, che non si chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie, che lotta e lo fa per la legalità. “Ci sono diverse frasi che sono riconducibili a mio fratello e a Falcone – conclude Salvatore Borsellino – Ne voglio prendere, ad esempio, una: Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola. Certo, Paolo e Giovanni paura ce l’avevano (come disse una volta Falcone “Rischio la vita tutti i giorni, sarei incosciente se non ce l’avessi”), l’importante però è che insieme ci sia anche il coraggio, che ti aiuta ad affrontarla. Ma il coraggio è sufficiente per fronteggiarla quando sei sicuro che ti uccideranno? No, non basta, ci vuole qualcosa di diverso e quel qualcosa ho voluto che fosse scritto nell’agenda rossa. Il pensiero che secondo me è il più bello di Paolo; quello che mi guida giorno dopo giorno e che cerco di trasmettere in ogni incontro: Palermo non mi piaceva, per questo imparai ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare. Ecco la sua vera forza: l’amore, appunto!”.

LA TESTIMONIANZA DI SALVATORE BORSELLINO

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