Milano / Malpensa
Una riflessione su Alfie
Sono passate meno di due settimane dalla morte del piccolo Alfie Evans. Fino ad ora, in tutto questo tempo, da quando è balzato ai clamori della cronaca la drammatica vicenda di questo bimbo, della sua famiglia e dei medici attorno a loro ho preferito evitare qualunque commento o valutazione, per quanto sollecitato da diverse parti: ci sono momenti in cui solo il silenzio può custodire ed aiutare tutti a costruirsi un prudente giudizio di coscienza, una seria opinione.
Ma c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, dice il saggio, e ora vorrei, attraverso queste righe, provare ad esprimere alcune opinioni. Sono tre idee semplici che non intendono proporre una soluzione o giudicare il dramma, ma raccogliere l’eredità che ci lascia quel piccolo angelo per continuare a prenderci cura davvero delle vite, soprattutto di quelle più fragili e indifese.
La prima idea: prenderci cura della vita significa anche riconciliarci con il tema della morte. Negli ultimi 50 anni, di fronte agli sviluppi promettenti e fantastici della medicina contemporanea e ai problemi che questa ha sollevato, la difesa della vita, soprattutto della vita debole, minacciata e ferita, ha assunto la forma dello sforzo di custodire la vita come se fosse un bene oggettivabile, una cosa da proteggere. Ma la vita non è una cosa, non è un oggetto da proteggere. La vita è scelta e passione, progetti e circostanze, desideri e fragilità: difendere la vita significa custodire questo intreccio dinamico offerto alla libertà di ciascuno ed aperto ad un senso sempre offerto, ma mai imposto. Dentro questo intreccio sta anche la morte. Essa non è solo un nemico da combattere con tutte le armi a disposizione. Si rischia così di assumere quella prospettiva tecnicista, quella razionalità tecnica che Benedetto XVI indica come una delle radici della crisi moderna (cf Spe Salvi, 17). La morte non è solo e sempre un nemico da combattere. Per quanto non si potrà mai direttamente provocare la propria o l’altrui morte, dovremo tornare ad imparare a convivere con essa, a chiamarla “sorella” quando si impone a noi con tutto il suo dramma e il suo dolore. Questa è una delle grandi sfide della nostra epoca che è stata definita proprio come una “società post-mortale” (cf Céline Lafontaine). Difendere la vita, custodirne la dignità, significa, e sempre più significherà, riconciliarsi con la morte.
Da qui la seconda idea: attorno a questa cura concreta della vita dobbiamo tutti costruire nuove alleanze terapeutiche. Non possiamo continuare a pensare che la “cura” nei confronti della vita quando è provata, debole e ferita sia qualcosa di pertinenza dell’uno o dell’altro soggetto. La vicenda della medicina contemporanea è oscillata tra un atteggiamento paternalistico in cui gli unici che sapevano cosa fosse giusto fare o non fare erano i medici, ad un atteggiamento individualista in cui gli unici ad avere voce in capitolo erano i pazienti e i loro congiunti (mentre i medici si riducevano ad esecutori passivi). A queste due linee di pensiero negli ultimi anni se ne è aggiunta una terza: una prospettiva giuridica. La medicina, caricata dell’eccessivo peso, tende oggi ad assumere una prospettiva difensiva per non rischiare di pagare conseguenze a scelte sbagliate o semplicemente non condivise mentre i pazienti rischiano di essere schiacciati da scelte troppo grandi in situazioni di eccessiva fragilità. In questa latitanza la palla rischia di passare alla freddezza di procedure amministrative decise dal sistema sanitario o al rigore di sentenze giuridiche. Il caso Evans ha messo in luce proprio questa deriva divenuta ormai sistemica nel modello britannico.
Il recupero della consapevolezza del limite come elemento costitutivo dell’arte medica e della fragilità come parte della vita di ciascuno di noi deve essere il punto di partenza per comprendere che solo “insieme”, solo in un’alleanza vera, e non formale, si può pervenire a vere scelte e pratiche di cura.
Infine, il terzo pensiero: riscoprire il ruolo e lo spessore dell’etica. Negli ultimi anni, lungo queste linee è andata imponendosi una logica bio-giuridica. Negli anni ’70, di fronte ai problemi di confine apertisi per l’estendersi delle possibilità tecniche e scientifiche, si è cercato di riscoprire il ruolo delle coscienze. Così è nata la bioetica. Questo tentativo però è come se si fosse fermato a metà del guado: rispetto al compito di formare coscienze capaci di farsi carico di scelte complesse, di aprirsi alla sfida del senso racchiusa nelle pieghe della vita, si preferisce spesso rifugiarsi in risposte prestabilite, sicure, unanimi garantite da modelli giuridici. Il sistema del best-interest tipico dell’approccio giuridico britannico rappresenta uno di questi modelli, ma nel caso Evans proprio questo ha mostrato non solo la propria debolezza, ma anche il proprio lato crudele.
Accettare la sfida delle coscienze significa assumere il rischio del dialogo, riscoprire la fatica e la bellezza dell’incontro, ritrovare le forme dell’accordo nel pluralismo delle decisioni per il bene di ciascuno, a partire da chi è debole e povero e proprio in questo incarna ancora oggi il volto del Figlio amato, il potere del Signore della storia, il giudizio del Principe della Vita. Questo volto ieri, oggi e nell’eternità risplende evidente nel viso del piccolo Alfie.
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