Milano / Malpensa
Gli 'schiavi' del terzo millennio
- 09/11/2018 - 11:58
- Inchieste
Un’enorme stanza ricavata da un vecchio capannone ridipinto di arancione. La luce fioca entra dai lucernai e illumina le scrivanie, tutti i telefoni in ordine, ancora stanchi dalle troppe telefonate della giornata precedente: il Call Center in tutta la sua vastità e freddezza. Una speranza per chi, ormai, speranza non ha. Non vi è ancora nessuno. Se si arriva presto si può godere del raro silenzio in compagnia di un caffè. Poi si scalda l’ambiente. Le team leader accendono i loro computer. Mettono le cuffie alle orecchie. Iniziano a sentirsi importanti. Quelle che fino a pochi minuti prima erano semplici ragazze, ora sono vampiri, assetati di sangue e povero denaro. Non hanno un grande stipendio, si vede dagli abiti che indossano, dalle loro auto di terza mano parcheggiate tra le erbacce in cortile, dai loro capelli che necessitano di una tinta fatta da mani sapienti. Ma l’autorità qui vale tutto. Avere una lavagna e assegnare compiti ai nuovi arrivati è più importante di un minimo sindacale. Basta poco per farsi assumere in un Call Center. Nessun requisito specifico. Solo un qualsiasi diploma di scuola superiore e tanta disperazione. Il colloquio è veloce: nome e cognome, nazionalità, passioni e sogni nel cassetto. Un cassetto che rimarrà chiuso fino a quando si rimarrà schiavi di questa prigione senza sbarre. Poi, un quadro specifico e dettagliato del lavoro da svolgere. Si deve vendere, non fare domande. Si deve lavorare sulla psicologia del cliente. Tante telefonate. Distinguere tra cliente freddo, caldo e tiepido. L’ultimo, il più insicuro, è la preda più prelibata. La classica signora che non conosce il motivo della telefonata e non riaggancia per educazione. A lei bisogna vendere. Anche se non necessita di nulla. Non è concesso un contratto full time, niente ferie, niente malattia, niente di niente. Si inizia a guadagnare quando il computer eroga i primi numeri di telefono da contattare. Appena ci si ferma, non si guadagna. I capi raccontano storie di ragazzi che hanno fatto carriera, ma questa gente non ha volto né nome. Duecento persone stanno lavorando (nell’azienda che mi ha assunto), ragazze e ragazzi, giovani e non, stanno impiegando il loro tempo per cercare di realizzare i loro sogni, dai più semplici ai più sofisticati. Alcuni portano addirittura la cravatta nella speranza di essere notati dai responsabili. Nessuno qui, desidera la loro felicità, ma solo il loro tempo. Ore, menti e voci, pagate un quarto rispetto ad uno stipendio alla portata del nostro quotidiano. Il vociferare ha ormai invaso il silenzio e la macchinetta del caffè è stata spenta. Nessuno si ferma.
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