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domenica 24 novembre 2024 | ore 10:59

"Mio nonno nel 1943..."

Cuggiono - Mario Bazzetta

Mio nonno si chiamava Mario Bazzetta, fu un militare italiano che dopo l’armistizio, il 10 settembre 1943, fu fatto prigioniero dai tedeschi e fu deportato in Germania, nel campo di concentramento di Mauthausen, in una sezione staccata. Inizialmente, lui ed i suoi compagni furono portati in una grande stanza, nella quale furono sottoposti ad una doccia di vapore; pensò che la sua fine purtroppo era arrivate e incominciò a pregare. Fortunatamente si trattava solo di una doccia disinfettante. Mi raccontava, che di notte, il cielo era sempre illuminato, scendeva una “strana polvere” e vi era un odore acre.
Dopo una settimana circa, lo caricarono ancora su un treno con destinazione Berlino, per un altro campo di concentramento. Qui incominciò il suo lavoro forzato per i tedeschi. Durante il tragitto giornaliero, dal campo alla fabbrica, incontrava sempre una piccola donnina anziana con gli occhi blu, come i suoi, la quale, di nascosto gli passava del pane e del burro, rischiando sempre la vita, perché per i militari tedeschi questo gesto era inaccettabile equiparandolo ad un tradimento. A Berlino inoltre s’incontrò con un altro prigioniero di Cuggiono, Emilio Crespi, “ul Fistè”.
In questo periodo di prigionia, dimagrì a dismisura, poiché la sua razione di cibo consisteva in un pezzo di pane nero, del brodo e occasionalmente un pezzetto di carne bollita ed un pochino di margarina. Lui e molti altri riuscirono a sopravvivere rubando gli scarti della mensa dei militari tedeschi.
Mi raccontava anche che, spesso se non tutte le notti venivano svegliati, portati in cortile dove, dopo l’appello, venivano contati e molte volte li facevano correre anche in mezzo alla neve fino al mattino, quando giungeva l’ora per andare a lavorare. Fu prigioniero dei tedeschi dal 10/9/1943 al 08/5/1945 e trattenuto dagli Alleati fino al 2 ottobre 1945.
Mio nonno, non amava raccontare la sua storia, ciò che aveva vissuto in quei 2 anni di prigionia, perché il dolore del ricordo era troppo forte nonostante fossero passati molti anni.

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