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'Fake News': la lezione di uno storico

"La falsa notizia è lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti" (Marc Bloch)
Rubrica 'Nostro Mondo' - Fake News

Nel 1916, in piena guerra, le trincee, da rifugi provvisori per le truppe, sono diventate la sede stabile delle prime linee del fronte. La vita dei soldati è un insieme di attività ripetitive e pericolose al tempo stesso. La convinzione che tutto possa risolversi con poche battaglie, veloci e decisive, ormai è crollata. Se nel breve periodo i governi, i primi a sottovalutare la portata dello scontro in atto, hanno saputo mobilitare l’opinione pubblica a sostegno delle ragioni del proprio paese, ora la misura è colma. Dopo mesi di trincea, l’entusiasmo si affievolisce, soprattutto nei soldati semplici: spesso di origine contadina, non hanno ben metabolizzato l’ideologia patriottica che ha giustificato l’origine del conflitto agli occhi dell’opinione pubblica. Per paura della repressione, per solidarietà verso i propri compagni di reparto o verso gli ufficiali di rango inferiore, che rischiano la vita insieme a loro, i soldati combattono una guerra che è percepita come un flagello. Tanto è più forte la stanchezza tra le truppe e tra i civili (i più colpiti sono quelli che abitano nelle aree adiacenti al fronte), tanto più si utilizzano diversi mezzi per mobilitare cittadini: uno di questi è la propaganda. Dagli opuscoli ai manifesti murali, dall’esaltazione dell’eroismo alla nascita di comitati “per la resistenza interna”, i governi cercano di diffondere capillarmente le proprie motivazioni. Qualcosa però sfugge e, per reazione, circola anche altro, una diversa versione che ribalta completamente quella ufficiale; non è fondata su dati vagliati criticamente e sarebbe ingenuo pretenderlo. In un piccolo mondo ripiegato su se stesso, qual è la trincea, non si hanno i mezzi per verificare alcunché. Tuttavia, come risposta immediata alla propaganda, circolano false notizie, nate spesso da fatti casuali e che non hanno necessariamente un secondo fine, se non quello di fornire una spiegazione agli eventi in corso.
Nell’esercito francese presta servizio Marc Bloch, uno dei più importanti storici del Novecento, allora trentenne. Finita la guerra, Bloch riporta una parte dei suoi ricordi in un piccolo ma prezioso volume, La guerra e le false notizie. L’autore racconta un evento in apparenza insignificante. Confondendo il nome della città di Brema con quello di Braisne, una buona parte dei soldati del suo reggimento trae la conclusione che un prigioniero tedesco da poco catturato sia una spia, che ha svolto il compito con furbizia, tanto da vivere indisturbato nella piccola città francese di Braisne. I tedeschi, commentano i commilitoni di Bloch, sono capaci di ogni astuzia. L’uomo è invece solo un soldato semplice. Un errore di poco conto e la realtà si trasforma. Ma ciò non sarebbe possibile se il fatto non confermasse un’idea verso cui già tendono le opinioni di molti. Ogni Stato può contare su una fitta rete di spionaggio; durante le prime sconfitte subite dalla Francia nel 1914, il sospetto di essere perennemente circondati da traditori cresce e «(…) lentamente la credenza era divenuta una sorta di dogma che quasi non contava infedeli».
In quale microcosmo si formano questo tipo di informazioni? Piuttosto lontano dalla linea di fuoco, ci sono figure che non combattono ma che sono comunque essenziali allo sforzo bellico, quali gli agenti di collegamento e, soprattutto, i cucinieri, i quali possono scambiare qualche parola con gli addetti ai rifornimenti, uomini che spesso abitano vicino ai civili. Quello che è stampato su carta è considerato manipolato, o controllato: ironicamente la censura- e la consapevolezza della sua esistenza- fa risorgere la tradizione orale. Più le persone provengono da piccoli gruppi che la guerra ha momentaneamente separato, più lo scambio di notizie è suscettibile di subire cambiamenti, persino rilevanti- spiega Bloch. I soldati non possono muoversi liberamente; altri individui sì. «La storia ha dovuto conoscere società ugualmente frammentate, in cui il contatto fra le differenti cellule sociali avveniva raramente e con difficoltà- in diverse epoche per mezzo di vagabondi, frati questuanti, venditori ambulanti- più regolarmente alle fiere o alle feste religiose». Basta una percezione interpretata nel modo sbagliato per dare vita a una specie di leggenda. La fatica e l’incertezza vissute dalle truppe non lasciano spazio ad alcun spirito critico nell’analizzare le informazioni non governative: a cosa servirebbe, d’altronde? Gli sconvolgimenti portati dalla guerra creano il terreno di coltura favorevole per seminare, far crescere e raccogliere fatti inesatti; in condizioni di disorientamento spopolano le false notizie.
Più complesso, ma non irrilevante, è capire quanto questo processo sia spontaneo o meno. La tentazione di sfruttare un luogo comune è sempre presente, giacché «falsi racconti hanno sollevato le folle». I soldati tedeschi che invadono il Belgio sono stati strappati improvvisamente alla loro routine; la popolazione belga è ostile e la resistenza si organizza. Le imprese della Germania durante le guerra del 1870 sono note, raccontate e incentrate sulla crudeltà dei suoi nemici. «Sono queste le disposizioni emotive e le rappresentazioni intellettuali che preparano la formazione delle leggende (..). Perché la leggenda nasca sarà ormai sufficiente un evento fortuito». E così i belgi in quanto tali appaiono, agli occhi dei tedeschi, capaci di ogni genere di atrocità. Le voci circolano, si arricchiscono di dettagli, non mancano anche di vestirsi di una specie di razionalità quando arrivano in ambienti più riflessivi. Gli uomini riversano ansie, paure, pregiudizi nelle false notizie e possono persino trarne momentaneo conforto: persi i punti di riferimento, ci si affida volentieri a un preconcetto, che richiede minor elaborazione rispetto a un concetto. Si crede insomma a ciò che si vuole credere. Paradossalmente ciò che è falso, intenzionalmente o meno, rivela molto perché svela una mentalità, cosa è considerato importante e cosa non lo è, cosa deve essere nascosto o invece divulgato.
Sbrogliare la matassa non è facile. Ragionare su ogni singolo caso, inserito in un contesto più ampio, certamente aiuta; la storia è infatti una disciplina la cui dimensione cronologica, anche quando si considerano i fenomeni di lungo periodo, non deve essere trascurata. Una guerra o altri fatti capaci di provocare lacerazioni al tessuto sociale, per esempio una forte crisi economica, sono laboratori eccezionali per osservare gli stati d’animo su larga scala. A scanso di equivoci, occorre precisare che le menzogne più eclatanti toccano solo in superficie la storia istituzionale, giuridica, o economica, o religiosa, mentre «(…) quel che c’è di più profondo nella storia potrebbe proprio essere anche quel che c’è di più sicuro». Eppure l’immaginario collettivo conta quanto un dato di fatto e condiziona gli eventi. Considerare le false notizie, da qualunque parte provengano, come semplici segnali di manipolazione o esempi di ignoranza non aiuta a comprendere cosa le alimenta.

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