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L’Arabia Saudita posiziona le pedine

Rubrica 'Nostro Mondo' - Arabia Saudita

"Non ci sarà tolleranza nei confronti della corruzione": Adel al Jubeir, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, lo ha ripetuto in più occasioni per commentare la campagna a favore della trasparenza nella pubblica amministrazione inaugurata dall’erede al trono Mohammed bin Salman. Al Jubeir non è uno sprovveduto. Per lungo tempo ambasciatore saudita presso gli Usa, il ministro conosce bene i media occidentali e sa che il tema della lotta ai privilegi, che spesso si trasformano in redditi illeciti e impuniti, è sentito da buona parte dell’opinione pubblica non solo mediorientale. Le misure contro la corruzione non sono necessariamente infondate in presenza di una burocrazia pletorica e non sono neppure una novità in Medio Oriente sebbene, nella maggior parte dei casi, siano limitate a un livello basso di incidenza perché non sfiorano le alte gerarchie statali, a meno che non siano opportune per regolare dei conti in sospeso. Infatti, come evidenziato all’unanimità dagli analisti dell’area, i provvedimenti hanno un valore più forte se inseriti nell’operazione di messa in sicurezza della propria posizione di Mohammed bin Salman. Il principe e ministro della Difesa non è il primogenito di re Salman; nominandolo erede al trono, il padre ha modificato la legge di successione saudita. La scelta è stata ratificata dal Consiglio della Corona: anche- e soprattutto- in uno stato autocratico, il sovrano deve conservare un’ampia base di consenso e non prevaricare continuamente gli organismi consultivi, seppur informali. Eppure non sono mai improbabili dei tentativi di rovesciamento da parte di altri pretendenti; accusando i potenziali rivali, Mohammed tenta di assicurarsi una via verso il trono non così irta di pericoli. Nelle ore immediatamente precedenti gli arresti di alti funzionari e principi (novembre 2017), Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni da premier del Libano a Riyadh. La fase di scontro saudita con l’Iran, tutta geopolitica e ben poco religiosa, si è così acuita. I due paesi sono su fronti contrapposti in diversi scenari. In Siria, l’Iran finora ha garantito la sopravvivenza di Assad, coadiuvato dalla Russia. In Iraq, l’attuale governo a maggioranza sciita ha iniziato a stringere relazioni diplomatiche con Riyadh; in Yemen, il paese più trascurato dai media occidentali nonostante la grave crisi umanitaria, l’accordo tra le parti è ancora lontano. In tutti e tre i casi, i conflitti hanno logiche interne che esulano dalle posizioni dei paesi del Golfo, tuttavia ne sono condizionati; l’implosione dei precedenti organismi statuali ha permesso, sia all’Iran sia all’Arabia Saudita, di ritagliare per se stessi uno spazio importante. Se nel corso del 2015 e del 2016 la quasi totalità della comunità internazionale è apparsa propensa ad avviare un dialogo concreto con la Repubblica islamica, l’amministrazione Trump ha sposato la tradizionale linea rigida statunitense che, se non può rigettare da un giorno all’altro l’accordo sul nucleare iraniano, si impegna a limitare il peso di Teheran nella regione. In tale ottica, il presidente Usa non ha fiatato quando, a giugno del 2017, Riyadh ha interrotto qualsivoglia relazione con l’emirato del Qatar, sempre più propenso ad ampliare la propria rete di contatti internazionali, soprattutto con l’Iran, senza ascoltare le direttive saudite.

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