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Over the Game

Sembra un videogioco

Quando il cinema imita i videogiochi. Dieci film, dieci storie, dieci modi di interpretare e reinventare non solo la settima arte, ma un'intera industria dell’intrattenimento.

Adattare un videogioco per il grande schermo non è certo un’impresa facile, anche perché i produttori, i registi e gli sceneggiatori incontrano gli ostacoli più svariati sul proprio percorso creativo, che li costringono a fare scelte che vanno a snaturare il prodotto finale. Anche se di recente i film tratti dai videogiochi stanno diventando sempre più popolari, fino a soppiantare quelli tratti dai fumetti, ci sono quei rari casi in cui il film in questione sembra tratto da un videogioco, ma di fatto non è un adattamento diretto di una IP videoludica. Film come ‘I tre dell’operazione drago’, ‘Tron’, ‘I guerrieri della notte’, ‘Nirvana’, ‘Existenz’ e i più recenti ‘John Wick’ e ‘Ready Player One’ sono dei perfetti esempi di come il cinema riesca a imitare i videogiochi, senza il bisogno di adattare una fonte videoludica diretta. Dalla missione da portare a termine ai combattimenti al cardiopalma, dagli oggetti che ci aiutano ad avanzare di livello agli intricati enigmi da risolvere, dalle orde di nemici che incontriamo sul percorso alla boss fight finale, ecco a voi dieci film che sembrano tratti da un videogioco, ma che di fatto non lo sono.

1997: fuga da New York
Nel 1997 New York, ormai devastata dalla delinquenza, è stata trasformata dalle autorità in un enorme prigione dalla quale nessuno può fuggire, pena la morte. Qui dentro, in un quartiere dove domina il Duca con la sua banda, cade l'aereo presidenziale dirottato da imprecisati terroristi. Chiuso nella sua capsula protettiva, c'è il presidente degli Stati Uniti che doveva raggiungere gli altri "grandi" del mondo a un importante simposio. L'incidente fa si che il presidente venga catturato e tenuto in ostaggio dalla banda del Duca, allo scopo di ottenere la libertà. Il capo della polizia pensa allora di utilizzare il feroce ma abile Jena Plissken, un eroe di guerra carico di condanne. Jena ritornerà con la fedina penale pulita se riuscirà a riportare indietro il presidente, insieme a un prezioso nastro magnetico che ha con se. Ha solo ventiquattro ore di tempo e, per sommo ricatto, gli hanno messo nel sangue due micro-bombe che gli faranno esplodere le arterie se non tornerà indietro nel tempo previsto. L'arrivo dal cielo di Iena Plissken che attraversa la notte eterna che stringe New York, ridotta dal sistema di guida elettronico ad una silhouette virtuale di righe geometriche, mentre la traiettoria porta Iena ad atterrare sul tetto di una delle torri del World Trade Center. La fuga di Iena dai cannibali metropolitani, il suo muoversi furtivo nel territorio del Duca; o ancora lo scontro nell'arena, la lotta tra Iena ed un energumeno assetato di sangue che sembra uscito dal videogioco ‘Double Dragon’; e potremmo continuare, perché sono davvero un'infinità le scene memorabili di ‘1997: fuga da New York’, uno dei capolavori realizzati da John Carpenter negli anni ottanta. Uno straordinario incontro tra western e fantascienza intrecciati in una cornice di degrado urbano dal sapore post-apocalittico. Un film che ha inspirato videogiochi come ‘Metal Gear Solid’ e ‘Resident Evil 4’, ed è proprio l’aspetto videoludico dell’opera che lo rende così unico ed estremamente influente. Immaginate il film di Carpenter come un gioco arcade per NES o Commodor 64; dopo il filmato introduttivo, ci troviamo fuori dal World Trade Center con l’obbiettivo di seguire il segnale del localizzatore che il presidente ha con se, facendoci strada tra ostacoli e i vari criminali che infestano la città. Dopo aver scoperto che il localizzatore è finito nelle mani di un barbone qualunque, siamo costretti a fuggire per metterci in salvo dai cannibali metropolitani, fino all’incontro con il tassista che ci indirizza alla casa di Mente, il quale ci dice che il presidente è ostaggio del Duca. Dopo il fallito tentativo di liberare il presidente, affrontiamo un gigantesco boss di fine livello in un arena gladiatoria, ed in fine eseguiamo una fuga rocambolesca in macchina attraverso il campo minato che separa la città dalle mura di confine. Dopo aver salvato il presidente potremo scegliere due finali: consegnare il nastro magnetico e salvare il mondo, oppure: consegnarne uno fasullo e distruggere quello vero. Riassumendo, dalla storia, alla messa in scena, dai costumi dei personaggi, alla fotografia, persino la stessa colonna sonora fa sembrare il film di Carpenter un monumentale adattamento di un videogioco arcade degli anni ottanta. Anche se il budget a sua disposizione è tutt’altro che stellare (circa 6 milioni di dollari), John Carpenter riesce a creare un’atmosfera sinistra e malsana, in cui è facile e inquietante perdersi. Un ambiente in cui il giocatore muove il personaggio fino alla difficile scelta morale di fine gioco: dopo tutto quello che abbiamo passato e gli amici che abbiamo perso, è giusto salvare il mondo?

Giochi stellari
Alex Rogan un campione di videogames e in particolare di ‘Starfighter’, simulatore di volo e avvincente sparatutto. La sua straordinaria abilità attira l'attenzione del misterioso Centauri, in realtà un selezionatore di piloti da impiegare nello spazio alla guida dei caccia da guerra Gunstar. Il ragazzo viene così reclutato dalla Lega Stellare per combattere contro pericolosi invasori alieni. Il 1984 è stato un anno molto ricco per il cinema di fantascienza, e ‘Giochi Stellari’ ha rischiato, alla sua uscita, di rimanere schiacciato tra i contemporanei ‘Star Trek III’, ‘Dune’, ‘Terminator’ e ‘Starman’. Tuttavia il film (il primo le cui scene d'azione sono state completamente realizzate in computer grafica), è riuscito a ritagliarsi un suo spazio grazie ad una attenta regia e ad una storia semplice ma capace di coinvolgere il pubblico più giovane in un periodo in cui i videogames erano in pieno boom. Una storia così smaccatamente pro-videogame non si era ancora mai vista: il desiderio di riscatto, di ottenere una vita migliore, e la capacità di trasformare i sogni in realtà passano per il mondo dei videogiochi, metafora di una passione sana da perseguire con dedizione, perché, prima o poi, può portare a cose buone. Per il resto siamo di fronte a una divertente space opera frammista alla commedia, chiaramente influenzata dall’impareggiabile successo di ‘Star wars’. Una pellicola che ha inspirato la serie di videogiochi ‘Wing commander’, ma anche l’immaginario di grandi registi come James Gunn, Taika Waititi ed Edgar Wrigth. Un ultima nota finale: insieme al film sarebbe dovuto uscire anche un cabinato arcade, uguale a quello che si vede in esso, sviluppato da Atari; ma a causa dei continui ritardi e degli alti costi di sviluppo, il progetto venne cancellato, mentre il cabinato che si vede nel film andò irrimediabilmente perso.

Spookies
Un ragazzo di tredici anni di nome Billy fugge da casa dopo che i suoi genitori si sono dimenticati del suo compleanno. Facendosi strada attraverso i boschi egli incontra un vagabondo che viene brutalmente assassino poco dopo che Billy lo ha lasciato solo. Il ragazzino giunge ad una vecchia villa dove una stanza è decorata per una festa di compleanno. Convinto che si tratti di una sorpresa dei suoi genitori, egli apre un pacco regalo trovandovi al suo interno una testa mozzata. Fuggendo dalla casa Billy viene prima attaccato dall'assassino del vagabondo, un essere umano simile ad un gatto munito di un uncino, e successivamente sepolto vivo. Nel frattempo, un gruppo di adolescenti cacciati da una festa giunge alla villa pensandola abbandonata. In realtà la villa è la dimora del mago Kreon, il quale per risvegliare la moglie defunta ha bisogno di vittime umane. Dopo aver posseduto una ragazza al fine di farle usare una tavola ouija, il mago invia una serie di mostri ad uccidere i ragazzi uno per uno. Immaginate Sam Raimi che dirige l’adattamento cinematografico di un gioco arcade in stile ‘Splatterhouse’, insieme al giovane Peter Jackson; aggiungete Don Coscarelli alla produzione ed otterrete ‘Spookies’, splendida perla del trash anni ottanta che rende omaggio ai film caserecci di Edward D. Wood Jr. Negli anni ottanta, giochi come il già citato ‘Splatterhouse’, ‘Ghost Hunters’, ‘Forbidden Forest’ e ‘Ghoul School’, avevano dalle trame semplici e dalle meccaniche di gioco piuttosto basilari: il protagonista attraversa un ambiente ostile infestato da mostri e altre creature soprannaturali, affrontando e sconfiggendo i vari boss che incontra sul cammino, fino allo scontro finale con il boss di fine gioco. Il film di ‘Spookies’ incarna alla perfezione lo spirito di quei giochi arcade: cimiteri, ville spettrali, lapidi, morti viventi, streghe, stregoni, ragnatele e nebbia sparsa un po’ ovunque. Tutto il gotico e i cliché del cinema horror antecedente a quest’opera viene riversato in quantità esorbitanti, non facendo mancare neanche un bel po’ di trash con perfidi uomini-gatto, mostri alieni del tutto fuori contesto, donne-ragno, zombi di ogni tipo, persino la grande mietitrice pronta a falciare vittime a destra e a manca. L’altra caratteristica che lo rende simile a un videogioco, risiede nei protagonisti principali che sembrano in tutto e per tutto dei personaggi di un roster da scegliere a inizio partita, in stile ‘Maniac mansion’. Il gruppo è molto variegato e non disdegna a mettere in scena tutti gli stereotipi che contraddistinguono questo genere di film: c’è l’idiota di turno, che stavolta è accompagnato da un pupazzo parlante, il solito bullo vestito peggio di Ivan Cattaneo negli anni ottanta, la ragazza prosperosa che non mancherà di far sobbalzare le sue grazie per tutto il film, il serio incravattato, la rompiballe e il ragazzino scappato di casa. ‘Spookies’ non è certo un film horror al pari di ‘Shining’ o ‘La notte dei morti viventi’, ma l’idea della villa infestata da mostri con il gruppetto d’amici che incautamente vi si avventura all’interno, finendo per intraprendere una battaglia per la sopravvivenza contro le mostruose creature, è qualcosa di veramente videoludico, che richiama alla mente titoli come ‘Alone in the dark’ e ‘Resident evil’.

Senza esclusione di colpi
Il pilota militare americano, Frank Dux, dopo anni di intenso addestramento con il giapponese Tanaka, un grande maestro di arti marziali, decide di partire per Hong Kong, dove ogni anno, tra i campioni di arti marziali, si svolge una sfida feroce, sanguinosa e senza esclusione di colpi: il kumitè. Malgrado il suo colonnello gli abbia negato il necessario permesso, Dux, approfittando di una licenza, giunge ad Hong Kong per partecipare alle eliminatorie: qui ha modo di conoscere un gigantesco individuo, Jackson, del quale diviene amico e che lo introduce ai segreti del kumitè. Dopo aver sbaragliato tutti i suoi avversari, Frank nella serata finale è costretto a battersi contro lo spietato Chong Li, l'attuale campione in carica, che poco prima, nelle eliminatorie aveva gravemente percosso Jackson. Il film ‘Senza esclusione di colpi’, con protagonista Jean-Claude Van Damme, sembra a tutti gli effetti l’adattamento di un videogioco picchiaduro degli anni ottanta. La storia di un gruppo di atleti che si esibisce in svariati stili di combattimento, e che sfidano la sorte partecipando al famigerato Kumite, un torneo di arti marziali in cui tutto è permesso, dalla tradizione storica ma soprattutto segreto, si presta incredibilmente bene ad una trasposizione cinematografica. Anche se il film vuole essere un biopic dedicato alla vita (alquanto romanzata) dell’artista di arti marziali Frank Dux, il risultato è qualcosa di puramente videoludico. Il film è un action ignorante e senza sostanza, ma raffigura a chiare lettere tutta la filosofia dei videogiochi picchiaduro. Elementi come: la sacralità del torneo, partecipanti da tutto il mondo che si mettono in evidenza attraverso una serie di tecniche, stili e discipline diverse ed assolutamente personali. Una moltitudine di botte e di incontri. Un villain di peso. E, naturalmente, un protagonista capace di svettare su tutto e tutti; sono gli elementi classici che si possono trovare in qualsiasi tipo di videogioco del genere. Oggi il film è considerato un grande cult del cinema di arti marziali degli anni ottanta, soprattutto grazie alla performance di Van Damme; il suo Frank Dux gode di un minimo di caratterizzazione (anche grazie ai flashback dove viene mostrato il suo percorso di formazione presso il signor Tanaka), ma è dotato anche di una fisicità in grado di bucare lo schermo e di una voglia di emergere divenuta il simbolo di un’intera generazione.

Matrix
Thomas Anderson lavora presso la Metacortex come programmatore di software. Di giorno è un cittadino modello, rispettoso della legge, mentre di notte vive una seconda vita, come un hacker sotto lo pseudonimo di "Neo", e in questa veste ha commesso praticamente tutti gli illeciti informatici possibili. Sorvegliato dagli agenti Smith, Brown e Jones, viene arrestato e gli viene inserita una cimice nel corpo per seguirlo. Una notte, compaiono sul monitor di Anderson una serie di frasi criptiche riguardo a qualcosa chiamato "Matrix". Desideroso di sapere cosa sia, accetta una richiesta di contatto da parte di Trinity, esperta hacker braccio destro del misterioso Morpheus, che lo conduce da lui dopo avergli estirpato la cimice. Neo chiede di conoscere di più riguardo al loro operato e questi si offrono di rivelargli il vero mondo in cui vivono. Ingerita una pillola e sottoposto ad un macchinario, si sveglia bruscamente, nudo, immerso in un liquido viscoso di un'incubatrice, con il corpo collegato a cavi elettrici, realizzando di essere all'interno di una tra tante enormi torri circolari che ospitano miliardi di incubatrici contenenti esseri umani. Per Neo è l’inizio di incredibili rivelazioni, combattimenti al cardiopalma e missioni volte a liberare l’umanità dalla gabbia di Matrix. Prima di vestire i panni di John Wink, il semisconosciuto Keanu Reeves, si calava nei panni di un altro personaggio che sembrava uscito dal mondo dei videogiochi e che era destinato a fare la storia del cinema. Ricco di riferimenti che spaziano dal simbolismo religioso alla letteratura fino alla filosofia, il film di ‘Matrix’ sembra essere particolarmente in debito anche con il mito della caverna di Platone, almeno per i temi e la storia narrata. Ora, immaginate il film dei Wachowski come un videogioco open world, dove l’obbiettivo finale è sconfiggere Matrix e liberare l’umanità dalla schiavitù delle macchine. Per farlo dovrete portare a termine delle determinate missioni, stringere alleanze e sbloccare le vostre abilità nascoste, il tutto mentre schivate proiettili e fate a pugni con qualsiasi cosa si muove. Il film offre letteralmente tutto quello che si può trovare all’interno di un videogioco action di alto livello: missioni primarie e secondarie da completare, abilità da sbloccare, oggetti da trovare e nemici dalle abilità sovrumane da sconfiggere. L’altra particolarità che lo fa sembrare un videogioco, risiede nelle scene in cui i personaggi utilizzano un telefono fisso per traslare da Matrix al mondo reale e viceversa. Il telefono è l’esatto equivalente della macchina da scrivere nei videogiochi di ‘Resident evil’, un punto di salvataggio dove salvare le partite, depositare gli oggetti trovati e all’occorrenza potenziarsi (si pensi alle scene dove Neo si allena insieme a Morpheus all’interno del programma “Struttura”). ‘Matrix’ è stato un film molto impattante per la cultura pop, sia al livello visivo che a quello narrativo; indimenticabili le celebri sequenze Bullet Time, che utilizzano una tecnica che consente di vendere ogni momento della sequenza in slow-motin, ottenendo risultati strabilianti. Questa conquista sul piano degli effetti visivi ha guadagnato così tanta fama da essere utilizzata in molte produzioni hollywoodiane venute dopo l'uscita del film, per non parlare di serie tv, spot pubblicitari, animazione, ma soprattutto nei videogiochi di ogni tipo.

Death race
Jensen Ames viene condotto a Terminal Island, un penitenziario di massima sicurezza in mezzo all'oceano. Ingaggiato dall'algida direttrice Warden Hennessey, disputerà una gara di automobili tecnicamente modificate e armate di mitraglie e lanciafiamme. Costretto a gareggiare con l'identità e la maschera di Frank(enstein), un ex detenuto pilota morto in un incidente, Jensen dovrà vincere la corsa in cambio della libertà. Ma le automobili della "death race" non saranno l'unica cosa truccata dentro un gioco spedito e sporco. ‘Death race’ è un remake del film ‘Anno 2000: la corsa della morte’, prodotto dal leggendario Roger Corman e diretto Paul Bartel nel 1975. La nuova versione diretta da Paul W. S. Anderson, prende le dovute distanze dalla pellicola originale, per aggiornarla ai canoni del cinema d’azione del primo decennio del XXI secolo. Tra film d'azione, prison movie e riflessione sulla società, ‘Death race’ spazia alla grande offrendo quasi due ore di adrenalina pura e divertimento intelligente. Il film sembra la trasposizione di un videogioco che incrocia le corse automobilistiche in stile ‘Gran Turismo’ con le atmosfere sporche e post-apocalittiche di ‘Twisted Metal’; dai piloti che vengono presentati come all’interno di un roster di personaggi giocabili, alla presenza di power point sul percorso per attivare armi e difese primarie dei veicoli, fino all’introduzione di un veicolo da battaglia che funge da big boss, e altri elementi stilistici e ambientali che rendono il film una perfetta e riuscita trasposizione cinematografica di un videogioco di corse, adrenalinico e iper violento, nonostante la trama esile e prevedibile.

The raid
Una squadra speciale della polizia malesiana prende d'assalto il condominio-fortezza di un signore della droga, anche se si rende conto ben presto di essere attesa dai criminali. E l'accoglienza non è delle migliori. A metà strada fra John Carpenter e Walter Hill (senza escludere le preziose influenze del cinema di Park Chan-wook), ‘The raid’ di Gareth Evans, sembra a tutti gli effetti l’adattamento di un videogioco action, dove dobbiamo guidare il nostro personaggio all’interno dell’edificio, fino a raggiungere il boss di fine livello, arroccato nell’ultimo piano del palazzo. Quello del palazzo da ripulire, espugnare e/o assediare è un classico del cinema d’azione, da ‘Die Hard – Trappola di cristallo’ al francese ‘La Horde’ passando per ‘Attack the Block’ e ‘Banlieue 13’; ma a differenza di questi titoli, il film di Evans è su tutt’altro livello. Dopo un breve incipit si scatena sullo schermo un vero e proprio massacro fatto di trappole, inseguimenti, esecuzioni, combattimenti all'ultimo sangue, scontri a fuoco e coltellate come se piovesse. Il nostro personaggio principale affronta letteralmente di tutto lungo il suo percorso, dai duelli all’arma bianca, agli scontri a fuoco, fino alle spettacolari e violentissime lotte di Silat, l’antica arte indonesiana inventata per resistere ai coloni olandesi dotati di armi da fuoco. Una disciplina marziale molto complicata, nata per preservare sempre e in qualunque momento l’equilibrio di chi la pratica, dandogli la possibilità, partendo da una posizione con il baricentro basso, di poter colpire duramente con calci, pugni e gomitate. Soprattutto, però, utilizzando il coltello (o il machete), da qui le affinità con il kali filippino. Ma il silat è più spettacolare, Evans ne intuisce le potenzialità cinematografiche, e le esalta in ogni sequenza del film, fino alla quasi totale saturazione della trama che passa in secondo piano in favore delle capacità fisiche del protagonista principale. ‘The raid’ è puro godimento videoludico, buoni e cattivi si menano di santa ragione per quasi due ore di film, ogni tipo di arma è utile ad ammazzare (dal machete a una lampadina rotta), il corpo a corpo secondo la tradizione del Silat va avanti con leve e rotture articolari, immergendoci in un crescendo di violenza vorticoso che come in un videogioco non si prende mai sul serio.

The Warriors Gate
Dopo aver aperto un misterioso scrigno, un adolescente timido e senza amici viene magicamente trasportato nell'antica Cina. Il ragazzo deve utilizzare le proprie abilità con i videogiochi per sconfiggere un crudele barbaro, che vuole sposare la futura imperatrice per poi ucciderla e subentrare al trono al suo posto. Reale, virtuale e magia si mescolano in questa co-produzione internazionale che porta la firma in fase di sceneggiatura di Luc Besson e del suo fidato collaboratore Robert Mark Kamen, qui alle prese con una rivisitazione del wuxiapian in ottica moderna, contaminato con il cinema fantastico di marchio hollywoodiano, e chiaramente indirizzata ad un pubblico generalista. ‘The warriors gate’ ricorda per temi e ambientazione un videogioco RPG a tema fantasy, dove puoi creare il tuo personaggio e farlo muovere all’interno dell’ambiente di gioco; se non ché, nel film, è il videogiocatore stesso che viene trasportato all’interno del videogioco. L'espediente dei videogiochi nella parte iniziale è in realtà tirato molto per i capelli, con il teenager che da grande appassionato ed esperto combattente attraverso mouse e tastiera si trova a dover dimostrare abilità fuori dal comune anche in prima persona, affrontando nemici in carne e ossa sempre più numerosi pur di salvare la bella principessa. Fiaschette magiche, uno stregone in grado di bloccare il tempo e di usare il teletrasporto, sensuali ragazze demone e un feroce guerriero a capo di un’orda di barbari completano un pantheon fantastico senza infamia e senza lode. Tra Oriente e Occidente, tra wuxiapian e avventura adolescenziale di chiara derivazione ottantiana, ‘The warriors gate’ è un discreto prodotto d'intrattenimento dedicato in primis ad un pubblico giovane e generalista, il quale trova non poche occasioni di divertimento nei cento minuti di visione.

Hardcore!
Henry si sveglia mutilato senza ricordare la propria identità, ma capisce ben presto di essere un cyborg, ricostruito dalla moglie scienziata dopo essere stato massacrato dal crudele Akan, uno psicopatico dotato di poteri telecinetici. Per Henry avrà inizio una fuga a rotta di collo dagli agenti di Akan, prima di prendere consapevolezza di avere una forza sovrumana e abilità di combattimento incredibili. Perché è così difficile realizzare l’adattamento di un videogioco in prima persona? Quando si prova a portare un videogioco di tipo FPS sul grande schermo (come ‘Doom’ e ‘Far cry’) , il risultato è quasi sempre mediocre e lontano anni luce dalla fonte d’ispirazione. Ora, perché il film di Ilya Naishuller è diverso dalle precedenti operazioni? Perché a differenza degli altri prodotti del genere, il film ‘Hardcore!’ fa quello che fanno i videogiochi in prima persona: rende lo spettatore protagonista dell’intera vicenda. La visuale in prima persona non è nuova nel mondo del cinema, e il film di Naishuller non è il primo a essere girato interamente dal punto di vista del protagonista; già nel 1947 il film ‘La donna nel lago’ di Robert Montgomery, aveva proposto questa tecnica con risultati molto soddisfacenti. Sebbene esistano molti esempi del genere, il film di ‘Hardcore!’ è il videogame sparatutto perfetto, trasposto degnamente al cinema, anche se le sue origini non sono tratte da un videogioco, nonostante le infinite caratteristiche che lo rendono tale. Il protagonista è volutamente muto, per accentuare l’immersività dello spettatore, come in qualsiasi FPS che si rispetti; le armi abbondano dietro ogni angolo e il personaggio che interpretiamo non si fa scrupolo ad eliminare i nemici anche a mani nude; il tutto è completato da un tutor che ci aiuta nella nostra missione fornendoci armi e potenziamenti, e da un boss di fine livello che sembra uscito da un capitolo di ‘Metal Gear Solid’. Il film di Naishuller è un’opera puramente sperimentale e dal forte impatto avveniristico, una pellicola che sembra creata appositamente per la visione tramite un dispositivo VR, uguale a quelli che stanno diventando di uso comune nei videogiochi in prima persona.

Free guy – eroe per gioco
Guy è un cassiere di banca che vive felicemente a Free City, dove il mondo si divide fra due gruppi di individui: quelli con gli occhiali da sole a cui tutto è consentito, che si dedicano a rapinare, colpire, uccidere e incendiare, e quelli "che stanno a terra e le prendono". Guy appartiene alla seconda categoria, ma non sembra pesargli affatto. Ogni mattina si sveglia con un gran sorriso sulle labbra, saluta il suo pesce rosso e si avvia verso una giornata sempre uguale, convinto che sarà fantastica. Ma il suo mondo non è reale: è un videogioco inventato da un magnate tecnologico che ne ha rubato il codice a due giovani programmatori. E una dei due game creator entrerà a Free City attraverso il suo avatar per recuperare quel codice nascosto. Guy, dopo aver sventato la solita rapina alla sua banca e aver rubato gli occhiali da sole al gicatore/rapinatore, decide di diventare l’eroe buono del gioco, e aiutare l’avatar della programmatrice (di cui è follemente innamorato) a trovare il codice nascosto, prima che il gioco venga cancellato insieme a tutti i suoi abitanti. A sette anni dal suo ultimo lungometraggio cinematografico, Shawn Levy torna dietro la macchina da presa per questo riuscito film a tema videoludico, un blockbuster estivo che miscela azione, divertimento e avventura nella migliore formula mainstream. A metà strada tra ‘The Truman Show’ e ‘Ready Player One’, il film di Levy non si prende troppo sul serio e non vuole suscitare chissà quale riflessione sul mondo dei videogiochi e sul suo aspetto più commerciale, sebbene sferri qualche importante stangata alle major che cercano di capitalizzare a tutti i costi senza rispettare i fan e le proprietà intellettuali. La pellicola è comunque molto creativa sul versante dell'effettistica e della coreografia, e in quei contesti attinge a piene mani a un immaginario che apparirà immediatamente riconoscibile ai videogiocatori navigati, senza scadere nel citazionismo forzato e becero. Solo i veri fan riconosceranno i fugaci riferimenti visivi o concettuali, ma il film non grida ai brand e non calca troppo la mano: è come se alcuni aspetti tanto cari ai videogiochi siano diventati parte integrante della cultura pop al punto da riflettersi nel linguaggio cinematografico in una specie di scambio creativo. Guy (interpretato da un magistrale Ryan Reynolds) è un buontempone un po' maldestro, che da semplice comparsa si trasforma nell'eroe carismatico, che sceglie di autodefinirsi a suon di buone azioni, invece di compiere crimini e altre nefandezze come fanno gli altri videogiocatori, diventando al contempo un modello di riferimento per essi. Sebbene sia un film corale, tutto nella storia ruota intorno al personaggio di Reynolds e al suo percorso di crescita personale; dal momento in cui indossa gli occhiali da sole, Guy acquisisce tutti i poteri e le abilità di un videogiocatore, dalla facoltà di rigenerarsi attraverso i pacchetti vita, all’abilità di saltare in alto come Super Mario, fino alla possibilità di utilizzare qualsiasi tipo di arma a disposizione all’interno del gioco e non solo. In conclusione, il film di Shawn Levy è una divertente commedia con tutte le caratteristiche tipiche di un grande videogioco open world, che ha per protagonista un eroe che non è un eroe, ma un tizio qualunque che crede che chiunque con un po' di buona volontà e forza d’animo possa diventare l’eroe della sua storia.

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