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Sociale, Milano

“E gli altri?"

La riflessione ad amministratori e cittadini che mons. Mario Delpini, ha pronunciato la sera della vigilia di Sant'Ambrogio nella Basilica di Sant’Ambrogio, durante i Vespri per la solennità del santo patrono della città.

“E gli altri? Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico”: questi il titolo e il sottotitolo del Discorso alla Città e alla Diocesi che l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha pronunciato la sera della vigilia di Sant'Ambrogio nella Basilica di Sant’Ambrogio, durante i Vespri per la solennità del santo patrono della città.
Il linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene istituzioni per farsi carico dei più fragili». Esprime così in sintesi i suoi sentimenti più profondi l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, nel Discorso alla città pronunciato oggi pomeriggio nella Basilica di Sant’Ambrogio, alla vigilia della festa del Santo patrono. Ad ascoltarlo, amministratori pubblici, politici e responsabili del bene comune che operano nel territorio della Diocesi.

E gli altri? Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico è il titolo scelto dall’Arcivescovo. Un punto di domanda nel titolo, «perché voglio fare l’elogio dell’inquietudine, voglio condividere l’aspetto promettente di un realismo che custodisce la speranza e che crede nella democrazia e nella vocazione della politica».

Ma chi sono in particolare gli altri per il pastore della Chiesa ambrosiana? «Mi sembra che tutti coloro che hanno responsabilità vivano quell’inquietudine provocata dall’interrogativo: e gli altri? E gli altri, i bambini che subiscono violenze e abusi? Le altre, le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa? E gli altri, gli anziani soli, chiusi nelle loro case per paura, per abitudine, perché impossibilitati a partecipare alla vita sociale? Gli altri, quelli che non hanno voce, quelli che abitano la città senza che noi ce ne accorgiamo? Gli altri, quelli per cui non abbiamo stanziato risorse sufficienti? E gli altri, quelli che non vanno a scuola, quelli che non lavorano? E gli altri, quelli che non hanno casa, quelli che non hanno assistenza sanitaria? E gli altri, quelli che lavorano troppo e sono pagati troppo poco? E gli altri, quelli che subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si insinua dovunque può conquistarsi profitti e potere? E gli altri, i ragazzi che si associano per commettere violenze, per rovinare i muri della città e le cose di tutti, per rovinare la propria giovinezza e rendersi schiavi di dipendenze spesso irrimediabili?».

Monsignor Delpini confessa che trova «sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento».

Nella sua analisi l’Arcivescovo parte dall’elogio dell’inquietudine «che bussa alle porte della paura. La paura serpeggia nella città e nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in se stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver bisogno, “non si sa mai”. Alle porte della paura bussa l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri?».

Un’inquietudine che bussa a «una città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili. Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare?».

Un’inquietudine che bussa «alle porte dei centri di ricerca dedicati all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale. E gli altri? Come potranno vivere quegli onesti lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la vita urbana impone loro?».

Delpini avanza una critica all’egoismo di una società ricca a scapito di altri: «Come si può giustificare un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui? Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita?».

Sono interrogativi e affermazioni, proposti dall’Arcivescovo, che esprimono l’elogio di chi non affronta con semplicismo e superficialità questioni complesse: «Mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione ampia, per quanto possibile».

Fin qui l’inquietudine manifestata dall’Arcivescovo, che però «non è un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i rapporti tra i popoli».

L’inquietudine e il realismo sono «le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana» e che non è «un’ingenuità consolatoria, è piuttosto la risposta alla promessa che chiama a desiderare la vita, la vita buona, la vita nella pace, la vita dono di Dio. Il realismo della speranza ama sostare in preghiera e in silenzio, resiste alla tentazione della superficialità e della fretta, percorre la via della sincerità, evita le maschere, il conformismo, la viltà».

Diverse le motivazioni che propone l’Arcivescovo con l’elogio del realismo della speranza. Innanzitutto quando «riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita umana. Il realismo della speranza smaschera l’illusione dell’individualismo, forse la radice più profonda dell’infelicità del nostro tempo». Una critica molto forte a un modo di vivere di chi pensa solo a se stesso e che ha concrete ripercussioni nelle scelte di vita. Per esempio, provocando il gelo demografico: «Il realismo della speranza rende desiderabile che continuino a nascere da un papà e da una mamma bambini e bambine, che siano circondati da ogni cura e introdotti nella vita come promessa di futuro. Si può comprendere così che una mentalità individualistica che censura la speranza sia tra le ragioni profonde della crisi demografica che invecchia la nostra società».

E ancora l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare l’emergenza educativa, non cercando «rimedi in interventi specialistici, in supporti farmacologici, in richiami moralistici. Più che di emergenza e di disagio si deve forse parlare di una invocazione che le giovani generazioni ci rivolgono: “Dateci buone ragioni per diventare adulti!”».

Propone inoltre l’elogio del realismo della speranza «che consente di affrontare la tutela della salute e il prendersi cura nelle situazioni limite della malattia. Vi è un’attesa quasi onnipotente della vita, nella dis-attesa della morte (rimossa). Pure nella complessità, nella frammentazione e nella frammentarietà del vivere postmoderno, il come è altamente presidiato e coltivato. È più fragile la dimensione del dove della cura, soprattutto nella malattia cronica, degenerativa e irreversibile. Essa appare sempre più come un non luogo: la malattia cronica è come consegnata al suo destino di irreversibilità e di contingenza. La cura si fa incerta, tra i confini del curabile e del (non) guaribile».

Tipico del territorio milanese e lombardo è il forte tessuto economico: «Il sistema produttivo, le qualità dell’imprenditoria, l’eccellenza dei prodotti, sono motivi di fierezza e meriti riconosciuti. Il realismo della speranza convince a costruire rapporti che non si limitino al dare e all’avere, al vendere e al comprare, ma diventino alleanze, interesse per il bene reciproco, rispetto per tutti gli ambienti, onore per tutte le culture».

Delpini delinea una globalizzazione che rifiuta i conflitti, a maggior ragione quelli armati: «Le esperienze disastrose delle guerre convincono dell’assurdità dei conflitti e dell’insensatezza di considerare nemiche persone con cui si è lavorato e collaborato in modo così costruttivo. Le esperienze disastrose di imprese di rapina che saccheggiano territori e riducono popoli in condizioni di schiavitù e di miseria devono suscitare una opposizione determinata dalla persuasione che o si cresce insieme o si perisce tutti».

Dunque, per l’Arcivescovo è necessario porre l’attenzione a consolidare relazioni internazionali impostati sul rispetto e la costruzione di una pace duratura: «Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che interpreta i rapporti tra le nazioni come condizione necessaria per rendere abitabile il pianeta e promettente il futuro. La storia che viviamo sembra offrire ragioni per scoraggiare aspettative di pace, l’avidità e la menzogna muovono all’aggressività, scatenano guerre, seminano odio e distruzione. Non possiamo lasciarci rubare la speranza: crediamo alla promessa della vocazione alla fraternità di tutti gli abitanti del pianeta. Non possiamo rinunciare al realismo: percorriamo e incoraggiamo a percorrere le vie della diplomazia, della preghiera, della reazione popolare alla guerra, agli affari sporchi che la guerra favorisce. Non possiamo rinunciare alla ragionevolezza che convince dell’assurdità della guerra e scuote dall’assuefazione. Non possiamo rinunciare al desiderio dell’incontro, della conoscenza, dell’amicizia tra i popoli, consapevoli che gli altri ci sono necessari».

Le terre ambrosiane sono storicamente ricche di solidarietà. Eppure anche su questo punto l’Arcivescovo mette in guardia. «Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare il pensiero e l’azione a interpretare la vocazione della nostra terra alla solidarietà. In molti modi le risorse sono state condivise: il tempo è diventato dono per il volontariato, le risorse economiche sono diventate supporto per opere di carità, gli spazi sono diventati luoghi per accogliere. È necessario però riconoscere ed evitare di praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”. Soprattutto in un settore che vede tutti impegnati in modo diretto e prioritario: l’assistenza ai fragili e la cura dei sofferenti. La gran parte delle risorse delle nostre istituzioni è investita in questo settore».

L’Arcivescovo è sempre più esplicito anche nella critica verso un sistema economico che punta sul profitto e considera la solidarietà un orpello marginale: «Forme diffuse di neoliberismo nelle trame di potentati imprenditoriali e dei poteri finanziari si ammantano di paternalismo generoso e di ostentata filantropia e perpetuano un regime di iniquità, la subordinazione umiliante di tanti, una cronica dipendenza dai privilegiati, dai forti, dai potenti». È necessario invece un cambio di passo radicale, addirittura rivoluzionario: «Il realismo della speranza incoraggia a sentirsi più profondamente un “popolo in cammino”, che pratica la solidarietà non come un’appendice lodevole dell’economia, ma come un principio rivoluzionario del sistema economico. Di fronte alla crescente divaricazione tra ricchi e poveri non può bastare qualche volonterosa protesta: è necessario sperare insieme con realismo un mondo giusto e mettere mano all’impresa di costruirlo».

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