Mentre si avvicina, inesorabile, la data del 12 giugno, gli italiani si accingono a votare per il nuovo Referendum, quello sulla giustizia.
Mentre si avvicina, inesorabile, la data del 12 giugno, gli italiani si accingono a votare per il nuovo Referendum, quello sulla giustizia. Un Referendum che si inserisce nel contesto di riforma, necessaria e tanto attesa, del sistema giudiziario italiano. Tra voci discordanti e riduzioni eccessive ai minimi termini, è forse necessario provare a fare un po’ di chiarezza e capire meglio, scevri da ogni tifoseria partitica, l’oggetto sul quale siamo chiamati ad esprimerci. Tra l’altro, è esattamente in quest’ottica che ha senso un Referendum: dare forma alla democrazia diretta priva di alcuna influenza dettata dai partiti politici. Altrimenti tanto vale mantenere la discussione in Parlamento, li abbiamo già i nostri delegati. Se ci viene richiesto invece di esporci in prima persona, dicendo direttamente la nostra, è evidente che siamo chiamati ad un esercizio di un diritto che ci spaventa molto, soprattutto se ci troviamo di fronte a cinque anonimi e complessi quesiti, ai quali dobbiamo dare due alternative, che rappresentano rispettivamente il 50% delle possibilità di risposta. Ciò che rende ancora più complesso il tutto, è che non esiste un manuale sul quale troviamo le soluzioni corrette; è necessario, perciò, fare un esercizio difficile e pericoloso: l’autonoma valutazione.
Vediamo i quesiti nella loro specificità
Il primo quesito (con scheda rossa) riguarderà l’abrogazione della cosiddetta Legge Severino, il D.Lgs. 235 del 2012. La legge, attualmente in vigore, prevede l’impossibilità di ricoprire cariche elettive o di Governo per i soggetti aventi condanne definitive per delitti non colposi come il delitto di allarme sociale o delitti contro la pubblica amministrazione (quali peculato, concussione, corruzione..). Attualmente se un politico viene condannato in via definitiva, è incandidabile e non può ricoprire cariche pubbliche, ottenendo automaticamente, perciò, la cosiddetta interdizione dai pubblici uffici.
Se dovesse vincere il sì, il D.Lgs. 235/2012 non vale più, perciò non sarà più una regola generale il fatto che un soggetto condannato in via definitiva abbia il divieto di ricoprire cariche pubbliche; sarà il giudice che, in udienza, decide caso per caso l’eventuale interdizione dai pubblici uffici.
Il secondo quesito (arancione) riguarda le misure cautelari. Nell’attuale ordinamento giudiziario, il Pubblico Ministero può disporre limitazioni della libertà personale nei confronti di un indagato durante il periodo di indagine e processo, solo per tre motivazioni argomentate: il pericolo di reiterazione del reato (quindi che un indagato nel in attesa dell’espletamento del processo, possa commettere nuovamente il reato contestatogli), il pericolo di fuga (quindi se nel lasso di tempo necessario ad indagini e processo l’indagato è nelle possibilità di fuggire) oppure l’inquinamento delle prove (quindi il caso in cui l’inquisito, se lasciato a piede libero, nasconda o distrugga delle prove necessarie al processo o alle indagini). Il tema è molto spinoso, ed è già stato più volte portato alla ribalta della cronaca soprattutto nei primi anni ‘90, quando il pool cosiddetto “mani-pulite” fece largo uso della carcerazione preventiva nei confronti dei soggetti indagati nell’inchiesta Tangentopoli, proprio per il rischio che, essendo molti di essi personaggi influenti e facoltosi, potessero inquinare le prove.
Il quesito chiede di esprimere il sì per abrogare la possibilità di carcerazione preventiva nella prima motivazione sopra esposta: quella della reiterazione del reato. In pratica, i promotori del sì sostengono che non è una motivazione sufficiente alla carcerazione preventiva nel lasso di tempo di indagini e processo, il pericolo che l’indagato possa commettere nuovamente il reato.
Il terzo quesito (giallo), è un lunghissimo testo molto tecnico, difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori e a parere di chi scrive, decisamente fuori luogo per un Referendum Popolare; riguarda la separazione delle carriere dei magistrati. Nel nostro attuale ordinamento giudiziario, esistono tre differenti figure: l’avvocato a cui è demandata la funzione di difensore, la pubblica accusa, rappresentata dal Pubblico Ministero, a cui è demandata la funzione di accusa, e il giudice, a cui è demandata la funzione super-partes di mediazione tra accusa e difesa. I promotori di questo quesito referendario vedono problematico il fatto che i magistrati in funzione di Pubblico Ministero, dopo diversi anni di servizio, possono assumere la carica di Giudice. La questione è molto tecnica, e c’è la tendenza da parte di alcuni movimenti politici ad una eccessiva banalizzazione populista di una faccenda che invece è molto seria e fondante. La sensazione, a volte, è che ci siano partiti che spingono eccessivamente verso una contrapposizione tra il popolo e la magistratura. Indubbiamente screzi tra le due parti ce ne sono stati, con colpe identificabili in entrambe, anche negli ultimi anni. Non è, nemmeno una novità che i partiti auto proclamatosi “anti-giustizialisti” spingano in questa direzione, senza accorgersi (o forse ben consci) di alimentare delle fratture sociali nella nostra comunità.
Il quarto quesito (grigio) riguarda invece la valutazione dei magistrati. Anche qui, la volontà di proporre questioni tecnico-organizzative ad una votazione referendaria è discutibile, ma dal momento che è stato fatto, proviamo a capire meglio di cosa si tratta. Proviamo a ridurre ai minimi termini il quesito, approfondendo il funzionamento attuale. Il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), organo che necessita indubbiamente di alcune riforme, ha il compito, tra le altre cose, di valutare l’operato dei magistrati. Come lo valuta? Sulla base delle informazioni che provengono dai Consigli Giudiziari (art.1 comma 1 della legge 150/2005), che sono organi territoriali composti da cariche appartenenti alla magistratura e membri “laici” (professori universitari e avvocati). Attualmente le informazioni al Csm provengono unicamente dai membri dei Consigli Giudiziari appartenenti alla magistratura, e non dai membri laici. Se dovesse vincere il sì, invece, anche i professori universitari e gli avvocati avrebbero diritto di intervenire nel giudizio dei magistrati proposto al Csm.
Il quinto e ultimo quesito (verde) riguarda la tanto agognata riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), che è un organo previsto dalla nostra Costituzione, per l’autogoverno della magistratura, per cui ne preserva l’autonomia e l’indipendenza, elementi centrali di una democrazia. Elementi, questi, previsti dalla Costituzione ma non sempre rammentati in anni presenti e passati, da molte cariche politiche istituzionali che, più o meno pudicamente, hanno tentato delle sortite o ingerenze.
Il Csm è formato da membri di diritto e membri eletti. Sono membri di diritto il Presidente della Repubblica (che lo presiede), il primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore Generale della Corte Costituzionale. I membri eletti sono per due terzi scelti tra i magistrati di ogni ordine e grado, e per un terzo eletti dal Parlamento.
Questo sistema comporta la necessità di correnti all’interno della magistratura, del cui appoggio un magistrato necessita per poter essere eletto. E’ un sistema abbastanza comprensibile, se pensiamo che un magistrato per essere eletto deve poter contare sulla scelta di un nutrito gruppo di firme, che va tra i 25 mila e i 50 mila. Con il sistema delle correnti, sono queste “sigle” ad intestarsi la ricerca dei candidati e presentarli ai propri sostenitori e conseguentemente indirizzare i voti verso una rosa di nomi limitata. Ovviamente tale sistema ha anche degli aspetti negativi, soprattutto se ai vertici delle correnti non ci sono soggetti animati da eticità e moralità.
Se dovesse vincere il sì, verrebbe depotenziato il peso delle correnti della magistratura, dando la possibilità a qualunque magistrato in servizio nel Paese di presentare la propria candidatura al Csm, senza passare dalle correnti per una prima scrematura.