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Cultura

Genocidio

"Tu cosa avresti fatto?" La preziosa provocazione del noto giornalista Emanuele Torreggiani ci porta a scandagliare domande più profonde sul senso della 'Giornata della Memoria'.

Il termine, la parola genocidio viene coniata nel 1944 dal professore Raphael Lemkin (1900-1959) giurista polacco, per esprimere, in sintesi, quanto stava accadendo nel teatro orientale europeo ad opera del regime nazionalsocialista. Il neologismo, comunque, implica, a differenza dei massacri avvenuti nel passato, l’espressa, cosciente volontà di estirpare, in modo radicale, una etnia specifica. Per questo motivo il genocidio ebraico rappresenta una unicità assoluta nella storia del mondo. Non era mai accaduto prima né, va detto, sarebbe accaduto poi con la medesima metodica. Al genocidio partecipò attivamente la cultura di un intero popolo: medici, biologi, chimici, ingegneri, architetti, giuristi, giornalisti, scrittori. La soppressione di milioni di uomini non fu avvenimento episodico, quale un massacro o, in misura minore un pogrom. Avvenne con il concorso diretto della scienza e della comunicazione. In questo, e per questo, lo sterminio rappresenta una unicità. Ora la giornata della memoria, che viene celebrata, andrebbe contestualizzata nella sua specificità e, soprattutto, di là dalle buone intenzioni espressa dai retori d’occasione, essa propone, sempre a mio avviso, una domanda: “Tu, come ti saresti comportato”, essa, la memoria, chiede, nell’attualità, ogni memoria si ripresenta nell’attuale e ripropone il passato dentro il presente, chiede, domanda, al singolo soggetto come si comporterebbe. Non chiede di condannare, questo esercizio lo si lascia alla retorica di occasione, insolente e superficiale; chiede di condividere un’esperienza e di rispondere, a sé stessi, con la sincerità del silenzio interiore. Qual silenzio nel quale si è davanti a Dio, muto ma in ascolto. Ritengo si possa dire sia una bella domanda. Tu cosa avresti fatto?
E la domanda non chiede di rispondere pubblicamente, quasi in una catarsi assolutoria. Chiede di rispondere sul palcoscenico del silenzio interiore: la coscienza. Per tentare una risposta interiore occorre una bibliografia minima:
Lion Feuchtwanger scrive: “I fratelli Oppermann”, scritto nel 1933 e pubblicato in italiano da Skira. Presa diretta sull’avvento del nazismo al potere, avvento democratico. Hans Fallada: “Ognuno muore solo”, 1946, Sellerio. Ecco, di là dalle magniloquenti retoriche di queste giornate, dopo aver letto questi due libri, in cui la narrazione si fonda sull’esperienza della realtà, la risposta non sarà banalmente immediata. (A mio avviso).

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