Obbligo di vaccinazione nei rapporti di lavoro
Nell’attuale periodo di emergenza sanitaria globale che ci vede coinvolti, ci si chiede, è configurabile in capo al lavoratore, sia esso dipendente pubblico o privato, l’obbligo di sottoporsi al vaccino contro il virus Covid-19? Ovvero, può l’esigenza di tutela della salute e sicurezza all’interno dell’ambiente di lavoro prevalere sul diritto del lavoratore di rifiutare di sottoporsi al vaccino per evitare di incorrere in un eventuale licenziamento per giustificato motivo oggettivo? Allo stato attuale non vi è alcuna norma che impone tale obbligo, tant’è che la questione si riduce ad una mera disputa dottrinale tra quanti ritengono che il rifiuto al vaccino costituirebbe un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto, atteso che la protezione dell’interesse individuale alla prosecuzione dell’attività lavorativa seguirebbe, e non già precederebbe, la protezione della salute altrui, che dunque prevale, e quanti, invece, muovendo dal rilievo insuperabile che la legge ad oggi non ha codificato alcun obbligo di vaccinazione Covid, né lo impone all’interno dei luoghi di lavoro, sostengono che il datore di lavoro non potrebbe sanzionare il dipendente a fronte della mancata accettazione di un vaccino. Ai fini di un inquadramento sistematico della questione occorre considerare le poche disposizioni normative presenti nel nostro ordinamento. Ad es. a fronte di quanto previsto dall’art. 32 della Costituzione, secondo cui: “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, non è possibile imporre l’obbligo di farsi somministrare il vaccino ma occorre una previsione di legge ad hoc. Ed in questo contesto può essere letta anche l’unica disposizione in materia di sicurezza sul lavoro che prevede espressamente che il datore di lavoro metta a disposizione del dipendente dei vaccini “efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni dall’agente biologico presente nella lavorazione” (art. 279 T.U. Sicurezza sul Lavoro). Infatti, tale norma prevede solo che il vaccino venga messo a disposizione dei lavoratori, non che sia obbligatorio. Non solo, tale disposizione fa riferimento al rischio biologico che nasce all’interno dell’ambiente di lavoro, mentre l’epidemia da Covid-19 ha una origine e una diffusione di carattere generale ed esterno. Anche, l’art. 20 del D. Lgs. N. 81/2008, seppur impone al lavoratore un obbligo di cooperazione all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, tuttavia, non detta un obbligo assoluto in capo al dipendente di sottoporsi al vaccino, ove si consideri che il lavoratore potrebbe avere, su indicazione del proprio medico curante e in relazione al proprio stato di salute, ragioni ostative alla somministrazione del vaccino medesimo. Allora il vaccino, benché non obbligatorio, quando deve o può considerarsi una misura di sicurezza essenziale e/o indispensabile ai fini del concreto svolgimento della prestazione lavorativa che potrebbe rilevare sotto il profilo della licenziabilità del dipendente? La valutazione andrà condotta tenendo in considerazione determinati criteri. Quali ad es. la particolarità del lavoro e del contesto lavorativo (criterio che porta all’adozione di accorgimenti sulla base dei rischi e delle nocività specifiche proprie di un determinato lavoro) e dell’esperienza e della tecnica (che impone il costante adeguamento dell’apparato preventivo al progresso, alle innovazioni, e alle conoscenze scientifiche e tecnologiche). In questo contesto, il licenziamento di un dipendente che rifiuti di vaccinarsi potrebbe essere legittimo nel caso in cui quest’ultimo abbia mansioni che richiedono il rispetto di determinate cautele sanitarie per cui la sua attività sia resa impossibile dalla mancata vaccinazione. È un’ipotesi che già si pone ad es. per i dipendenti di cliniche e strutture sanitarie, ma che si porrà anche per tutti i soggetti a contatto con la clientela. In ogni caso, in sede giudiziale, il datore di lavoro sarà tenuto a dimostrare non solo che non vi sono misure alternative adeguate a tutelare la salute del dipendente in termini di possibilità di ricorrere allo smart working e/o di adottare dispositivi di protezione individuale ulteriori, ma anche di aver esperito infruttuosamente il tentativo cd di repechage in relazione a posizioni che dal punto di vista tecnico-organizzativo presentino rischi di contagio inferiori. In altri termini, ove il singolo non accetti il vaccino, a maggior ragione se adduca motivazioni relative alla propria salute, il datore di lavoro dovrebbe dimostrare che, in quella determinata situazione e per quelle determinate mansioni, il vaccino di ogni dipendente configura una misura indispensabile per la tutela della salute sua, dei colleghi ed eventualmente del pubblico e degli utenti, e che non vi sono misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti, come quelle fino ad oggi adottate ed altre progressivamente attuabili (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart-working, ecc.), le quali consentano di mantenere il dipendente su quelle mansioni”. Il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento a causa della mancata vaccinazione deve altresì verificare se il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti o riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte - secondo quanti stabiliti dell’art. 2103 c.c. In definitiva, la vaccinazione non può essere imposta senza una legge, ma è una misura di prevenzione senza la quale può scattare l'inidoneità temporanea alla mansione e, quindi, al verificarsi di certi presupposti, anche il licenziamento.