Dopo anni di agonia, Ilva diventa di Stato. È una chiusara triste che non rende giustizia a nessuno, in particolar modo ai Riva, vittime di una giustizia con il paraocchi.
Dopo anni di agonia, Ilva diventa di Stato. È una chiusara triste che non rende giustizia a nessuno, in particolar modo ai Riva, vittime di una giustizia con il paraocchi, antindustriale, che è riuscita nel tempo a distruggere una grande attività italiana, la vita economica di migliaia di lavoratori e determinare una perdita di Pil nazionale stimata di circa 23 miliardi, il tutto per accuse ancora avvolte nella nebbia. C’è un patteggiamento, che comunque non è una condanna, e un’assoluzione dalla bancarotta, che origina dal sequestro e dalla gestione commissariale dello Stato, il quale, dimezzando la produzione ha sventrato la solidità patrimoniale di una grande azienda, riponendo le colpe dell’insolvibilità sulla famiglia. C’è un’accusa per disastro ambientale, senza mai una sentenza passata in giudicato, ma soltanto relazioni che suppongono una correlazione tra causa ed effetto e un processo aperto da anni. Da questo tanto esplicito quanto vergognoso incipit cominciano lunghi anni di tira e molla tra lo Stato, la sua gestione commissariale, i magistrati e il nuovo partner interessato: Mittal. Nel frattempo, Ilva perde tutta la sua rilevanza sul piano commerciale europeo e la sua produzione abbandona definitivamente quelle punte toccate sotto i Riva di 14 milioni di tonnellate di acciaio e 13 milioni di laminato annue. Lo Stato, nella veste di Calenda, chiude con Mittal nel 2016 un accordo vincolante di tutto rispetto, che li vincola a una lunga serie di investimenti miliardari sulla riqualificazione ambientale dell’area e sulla ripresa della produzione, legato a doppio filo ad uno scudo penale che lo Stato, giustamente, concede agli indiani. Se una luce sembrava intravedersi, sono poi Di Maio e il suo Movimento pinocchiesco, guidato dall’idea che a Taranto bisognasse coltivare le cozze, e oggi Arcuri a far calar la scure sul futuro industriale di Taranto e dell’Ilva. Prima la levata dello scudo penale, minacciata, votata e poi ritirata, che ha permesso a Mittal di svincolarsi dall’accordo del 2016; poi ancora mesi di trattative e oggi l’ingresso di Invitalia, fino alla maggioranza in consiglio, nel capitale di Ilva. Arcuri, uno dei peggiori esempio di gestore della cosa pubblica degli ultimi anni, è il punto finale di una vicenda veramente indegna, antindustriale e prettamente giudiziaria, che ha calpestato i diritti di una famiglia di imprenditori, senza considerare minimamente l’effetto sull’economia del paese. Con Arcuri nasce l’acciaio verde di stato, e qualcuno starà pure festeggiando, prodotto da forni elettrici a capacità di 2 milioni di tonnellate annue. Con questo non solo Mittal non avrà più gli oneri di investimento previsti, ma percepirà, anzi, da Invitalia il valore delle quote in cda. Se non vi fosse stato lui a capo di quest’intesa, ci sarebbe stato anche da preoccuparsi… ma ormai non ne vale più la pena: Ilva è morta e, forse, è meglio così.