La domanda è: come riconoscere un populista? Beh, direi dalla lunghezza media dei post sui social; meno parole si usano, meno si hanno progetti da proporre.
C’è una relazione profonda e costante nella storia, perlomeno in quella moderna, che vede i gravi momenti di crisi accompagnati sempre o quasi sempre da qualche forma di populismo; questo termine ormai è entrato nel linguaggio comune, anche se, come spesso accade in queste diffusioni, se ne perde l’effettivo significato.
Storicamente il termine populismo nasce in Russia nella seconda metà del XIX secolo, con la forte connotazione di “forza popolare” in quanto, in quel contesto, rappresentava proprio i movimenti anti-zaristi e socialisti che di lì a poco avrebbero fatto crollare lo Zar. Si parla di populismo anche relativamente ad alcune fazioni della rivoluzione francese, in particolare quelle ispirate dalle idee di Rousseau, così come troviamo questo termine nel contesto latino-americano ad indicare un rapporto diretto e carismatico con le grandi masse come nel caso di Peron in Argentina, e Chavez in Venezuela. Ma cosa significa esattamente e cosa c’entra con l’oggi?
Ecco un esempio di quelli che vengono chiamati “corsi e ricorsi della storia”; il concetto di populismo nasce con accezione positiva, come strappo con la tradizione, contestualizzato storicamente diventa quasi sinonimo di ribellione ai regimi totalitari, rivendicando la partecipazione, popolare appunto, alla vita e alle scelte politiche e sociali. Ma ecco che via via l’idea di populismo si stratifica diventando, con l’evoluzione delle forme di governo democratiche, sinonimo di demagogia: parole vuote, promesse che fanno presa sulla gente, ma che spesso rimangono tali, senza diventare realtà. Promesse per ottenere consenso, il nuovo dio del XX secolo.
Ma ecco come in Italia assistiamo ad un nuovo ricorso della storia; infatti dal 2013 si impone sulla scena politica Beppe Grillo e il neo-nato Movimento 5 Stelle, che fanno del populismo il proprio cavallo di battaglia. Ma è un populismo diverso, ha perso parte di quel retrogusto dispregiativo, è diventato sinonimo di politiche sociali comuni, condivisibili da tutti, e comprensibili, poste come contrapposizione ad un “sistema” che incarna valori negativi e disonesti. Siamo infatti di fronte al grande errore della classe politica: allontanarsi dal popolo, rendersi incomprensibile agli elettori, sancendo una distanza con la gente comune che si fa sempre più profonda generazione dopo generazione, convincendo in parte i cosiddetti “giovani” che non fanno parte di questo mondo, tanto che la maggior parte di loro sono totalmente estranei e disinteressati alla vita politica del proprio Paese; semplicemente non sentono di farne parte. Ed ecco perché un movimento nato da un comico, un grandissimo comunicatore, ha avuto così tanto spazio e così tanto consenso. Finalmente qualcuno che “parla come mangia”, qualcuno che si comprende.
Ma la volontà di semplificare qualcosa come la politica e l’amministrazione, che è tutt’altro che semplice, è più facile a dirsi che a farsi. Infatti il neo-nato Movimento grillino ha necessitato di un bel po’ di “gavetta”, nella quale inevitabilmente parte di quel populismo che era fulcro e vanto, è andato perso. E i sondaggi lo dimostrano.
Perciò, corsi e ricorsi della storia, ecco affiorare nuovi populismi; se da un lato la politica è troppo complessa, dall’altro nasce qualcuno che sa spiegarla “in soldoni”, che a colpi di tweet e slogan riesce a farsi capire, e quindi a coinvolgere. E se in questo momento ad occuparsi di amministrazione pubblica sono le frange di centro sinistra, ecco che la cosiddetta opposizione, nel processo dialettico, fa il proprio mestiere: dice che sarebbe in grado di fare meglio. Ovviamente senza spiegare come, la cosa importante è dirlo. Perché se da un lato qualcuno dice “è complicato, ci stiamo lavorando”, e qualcun altro dice “se ci fossi io avrei già risolto questo problema”, ecco che sappiamo in chi riporre la nostra simpatia. Per semplificare e forse un po’ banalizzare il funzionamento della Repubblica , possiamo dire che è fatta da due categorie,una che fa (o cerca di fare) e una che aspetta criticando, finché i ruoli non si invertono, e chi prima diceva di saper fare si accorge che le cose non sono così semplici come credeva, e chi prima cercava di fare, ora sostiene di poterci riuscire.
E in tutto questo si inserisce il populismo nella sua accezione più negativa: la strada per il consenso. E allora verrebbe da chiedersi che cosa significa fare politica; e la risposta potrebbe essere che fare politica significa guardare avanti, significa non pensare all’oggi, ma gettare le fondamenta per il domani. Il populismo è utile se è un modo per avvicinare la gente, per accompagnarla nella comprensione dei difficili meccanismi del mondo contemporaneo. Il becero populista a caccia di consensi agita il popolo, il vero statista invece usa il proprio carisma per proporre tesi argomentative, spiegando il proprio progetto politico che guardi al futuro, non al presente. Per fare politica bisogna avere un’idea a lungo termine, non basta cavalcare l’onda del presente. Facile farlo, in momenti di crisi lo è ancora di più; quando la gente sta male, approfittarne promettendo il miglioramento delle condizioni è la più lampante forma di crescita del consenso; e in Italia è ancora più facile, perché l’elettorato medio ha la memoria cortissima, bastano 11-12 mesi per far cancellare il ricordo e poter incominciare da capo. Ma forse ora abbiamo bisogno di statisti, di beceri populisti ne abbiamo avuti fin troppi.
La domanda è: come riconoscere un populista? Beh, direi dalla lunghezza media dei post sui social; meno parole si usano, meno si hanno progetti da proporre. Si va a caccia di consenso, ma per cosa se non si hanno idee? Qualcuno invece propone la cosiddetta “politica dell’ascolto” (ascolto per consolidare le proprie tesi o per gettare benzina sul fuoco?); mi viene in mente Massimo Cacciari quando dice che in fondo, dal politico non ci aspettiamo qualcuno che ascolta, ma qualcuno che ci risponde.
E quindi, di converso, come direbbe il dott.Locatelli dell’ISS, come riconosciamo uno statista? Dal progetto che ha in mente. Se ce lo spiega e lo capiamo subito tutto, allora forse non abbiamo a che fare con un vero statista.
Un esempio di progetto a lungo termine? A volte fa ridere pensarlo, ma c’è ancora qualcuno che non ha una visione internazionale, comunitaria, volta al miglioramento delle imperfezioni Europee, ma con la salda consapevolezza che non può esistere più il concetto di Nazione, se non è in relazione come parte di qualcosa di più grande. E purtroppo, più grande significa anche più complesso.
Cosa sperare per il nostro futuro? Più statisti, e meno populisti, che facciano ciò che è necessario, non ciò che porta consenso; il consenso smisurato dell’oggi si paga nel domani. E alla faccia di chi con scarsa conoscenza della storia esalta l’Italia degli anni ‘80, direi che un ripassino sul manuale di storia contemporanea spiegherebbe bene perché oggi più che mai servono statisti che guardano al futuro e non politicanti intenti a crogiolarsi nell’oggi.
di Matteo Cassani