"Pace senza vittoria", una pace equa "senza annessioni e senza indennità": Wilson e Lenin. La rivoluzione Russa e l'entrata in guerra degli USA nella 1^ Guerra Mondiale.
Nella primavera del 1917, dopo tre anni di guerra, gli imperi dell’Europa centrale sono quasi al collasso. In Germania si registrano una serie di scioperi e i marinai della flotta tedesca sul Baltico si ammutinano. Nell’impero austro - ungarico la situazione è ancora più complicata, perché vi è la consapevolezza che l’andamento faticoso del conflitto rafforza l’irredentismo, sedato a fatica, di buona parte dei popoli che compongono l’impero. Nell’estate del ’17 serbi, croati e sloveni si accordano per costituire uno Stato unitario degli slavi del Sud. Sul fronte dell’Intesa e nello stesso arco temporale, due eventi sono decisivi: la rivoluzione in Russia e l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Il 15 marzo Nicola II abdica a favore del fratello, dopo che soldati e operai marciano uniti nello sciopero generale di Pietrogrado svoltosi a inizio marzo (febbraio, secondo il calendario russo). Non regna il nuovo zar, ma il caos. L’esercito si disgrega e molti contadini abbandonano il fronte per tornare nei propri villaggi di origine, sperando nella possibile spartizione delle terre. Il 25 ottobre, dopo essersi impadroniti del Palazzo d’Inverno senza aver incontrato un’efficace resistenza, i bolscevichi prendono il potere e rovesciano il governo provvisorio. Il 3 marzo del 1918 i capi rivoluzionari firmano un trattato di pace separata con la Germania. La Russia cessa di fornire ogni contributo all’Intesa, ma la sua uscita di scena è compensata dall’intervento americano, decisivo anche se gli Stati Uniti non dispongono di un esercito competitivo quanto quelli europei. La presa di posizione statunitense contro la Germania è dovuta alla guerra sottomarina intrapresa dai tedeschi per minare l’economia dei paesi dell’Intesa. I due eventi non sono importanti solo per le dinamiche militari del conflitto, bensì esercitano grande influenza nell’immediato primo dopoguerra. Wilson e Lenin offrono infatti due visioni del mondo, e di gestione della politica mondiale, in un momento in cui i vecchi riferimenti scompaiono. Nel 1918 quattro imperi crollano. Chi è sopravvissuto ai campi di battaglia è quasi abituato a una vita strettamente gerarchica e all’uso delle armi. Tornati a casa, i reduci sono al centro di politiche assistenziali, atte al loro reinserimento nella vita civile; le promesse sono spesso disattese, a causa dei gravi problemi finanziari statali. Il risentimento cresce e spinge a organizzarsi per far valere i propri diritti. La struttura della famiglia patriarcale scricchiola: durante il conflitto, in assenza degli uomini e con le industrie belliche in espansione, sono le donne a lavorare, guadagnando una certa indipendenza. La maggior parte degli europei aspira a un ordine nuovo, seppur con diverse istanze. Nel gennaio del 1918, il presidente Wilson espone il suo programma per la pace in quattordici punti, estremamente innovativo rispetto ai principi della diplomazia antecedenti il 1914. Oltre al riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli soggetti all’impero austro-ungarico e a quello ottomano, il presidente statunitense propone l’abbassamento dei dazi doganali, la riduzione degli armamenti, la difesa della libertà di navigazione e di commercio e una diplomazia che non si basi solo sulla segretezza. L’ultimo punto è tuttavia il più importante, perché accolto con estremo favore dall’opinione pubblica: esso prevede l’istituzione della Società delle nazioni, un organismo internazionale che vigili sul rispetto delle norme di convivenza tra i popoli. Permettere al diritto e alla cooperazione internazionale di sostituirsi alla forza militare, o alla minaccia di un suo utilizzo, per gestire le relazioni internazionali è un passo avanti non solo dal punto di vista dell’enunciazione di un principio, bensì perché avrebbe permesso di stemperare i disordini creati da nazionalismi contrapposti. Wilson diventa il punto di riferimento riformista per una parte della classe dirigente europea spaventata dalle contemporanee vicende russe. Lo spettro che si aggira per l’Europa ha assunto una forma ben concreta. Nel 1918 Lenin pubblica Stato e rivoluzione, nel quale afferma con sicurezza che lo Stato borghese deve essere soppresso dal proletariato nel corso della rivoluzione. Dopo una prima fase di “dittatura del proletariato”, necessaria pur non creando condizioni di piena uguaglianza, si arriva alla piena società comunista. I tempi di questo passaggio non sono precisati: nessun socialista “scientifico”, ossia che segue con attenzione le tappe dell’evoluzione sociale e la dialettica materialista della storia, può prevederlo con certezza. Dal punto di vista dei militanti socialisti europei (le correnti sono numerose), forse è una questione di poco conto; ciò che importa è che gli eventi russi dimostrano al mondo la possibilità effettiva di passare da una “guerra imperialista” a un embrione di stato socialista. Lenin, inoltre, conta, invano, su una sollevazione dei popoli europei contro la guerra, da cui si può arrivare a una pace “senza annessioni e senza indennità”. La conferenza di pace inizia il 18 gennaio 1919 a Versailles. L’attuazione dei quattordici punti è problematica. Per l’Intesa non è solo complicato applicare i principi di autodeterminazione perché si teme che possano generare nuovi nazionalismi e conflitti, ma occorre disegnare nuovi equilibri europei, senza ignorare i principi democratici rivendicati durante l’ultima fase del conflitto e le pressioni che vengono dall’opinione pubblica dei paesi vincitori. In conseguenza della dissoluzione dell’impero asburgico nascono nuovi Stati. Le dure condizioni imposte alla Germania sottolineano inoltre quanto sia difficile conciliare la “pace senza condizioni” (non improntata cioè su sentimenti di rivalsa verso gli sconfitti) di Wilson con l’obiettivo, specialmente francese, di imporre provvedimenti punitivi. Nasce la Società delle nazioni, con l’esclusione dei paesi sconfitti e della Russia. Questa miope decisione compromette sia la rappresentatività dell’organizzazione sia la sua effettiva capacità operativa, già minata dall’assenza di strutturati organismi decisionali. Il Senato degli Stati Uniti, restio a coinvolgere eccessivamente il paese nelle vicende politiche europee, respinge nel 1920 l’ingresso nella Società delle nazioni: lo Stato che avrebbe dovuto rappresentare il pilastro della neonata organizzazione internazionale si ritira. Negli anni immediatamente successivi la fragilità del nuovo ordine internazionale, la crisi della società liberale, il timore della diffusione del comunismo contribuiscono a spianare la strada ai fascismi.