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Robecchetto

Luca e quel sogno 'alpino'

Il primo Caporal Maggiore Luca Barisonzi, rimasto gravemente ferito in un attentato in Afghanistan nel 2011 e oggi costretto su una sedia a rotelle, è venuto a Robecchetto per presentare il suo libro 'La Patria chiamò'. Emozioni in sala Consiliare.

La forza e il coraggio di andare avanti anche quando il destino decide di voltarti le spalle. La vita che cambia, all’improvviso: il primo Caporal Maggiore Luca Barisonzi, oggi, è una persona diversa (non può più muoversi, correre o camminare come faceva prima), ma la grinta e lo spirito, quelle no, non sono cambiate per nulla. Così, le emozioni e la commozione, l’altra sera si sono mischiate insieme quando lo stesso Luca è arrivato in sala consiliare a Robecchetto con Induno per presentare il suo libro “La Patria Chiamò - storia di un alpino” (scritto assieme a Paola Chiesa che ne ha curato il testo). L’evento, promosso dalla Fondazione Primo Candiani Onlus e dall’Amministrazione comunale, non è stato solo un importante momento di confronto e riflessione, bensì molto più. Barisonzi, infatti, nel rispondere alle domande a lui rivolte da Luisa Vignati, ha raccontato la sua esperienza, il viaggio che l’ha portato a decidere di arruolarsi, i primi momenti nell’Esercito Italiano e, poi, quella missione in Afghanistan quando, il 18 gennaio 2011, in un agguato è rimasto gravemente ferito (adesso è costretto su una sedia a rotelle; con lui c’era anche il commilitone Luca Sanna che, purtroppo, è rimasto ucciso). Poche e semplici parole, i sogni di un giovane come tanti che aveva ed ha tuttora tre ideali ben precisi: la Patria, la libertà (“E’ un dono tale che bisogna attivarsi per portarla dove ancora non c’è”) e la solidarietà verso il prossimo. E che rifarebbe tutto ciò che ha fatto, senza ripensamento alcuno. La sua testimonianza è partita con il sottolineare la situazione di reale povertà trovata in Afghanistan e con la descrizione del lavoro svolto da lui e dai suoi compagni per garantire sicurezza e lo svolgimento delle normali attività. Quindi, la vita militare che comprendeva l’addestramento dei soldati afgani, la perlustrazione delle case alla ricerca degli insorti ed il disinnesto di ordigni, oltre che il monitoraggio del territorio dall’alto delle colline in avamposti di osservazione, fino all’attentato e ad un ricordo speciale per l’amico Luca, che era insieme a lui quel giorno e che è morto. “Luca continua a darmi la forza di andare avanti - ha detto Barisonzi - Mi ha insegnato il sacrificio ed il senso del dovere. Io e gli altri compagni lo ricordiamo nei momenti felici trascorsi insieme; era una persona solare, un grande uomo”; Poi, lo stesso Barisonzi ha parlato di sé. “La forza me la dà il pensare che sono qui ancora, mentre altri ragazzi no. Sento di doverglielo per far sì che quello che è stato non vada perduto”. E del libro. “Noi alpini siamo persone normali che amano il proprio Paese e per questo abbiamo deciso di indossare l’uniforme e andare dove il Paese ritiene più opportuno. Indossare un’uniforme non è un lavoro ma una vocazione, qualcosa che si sente dentro”. Alla fine, spazio alle domande dei presenti. Qualcuno tra il pubblico chiede cosa risponde a chi accusa i militari italiani di andare in missione per denaro. “Innanzitutto vorrei che si capisse che la libertà è una cosa che si apprezza quando viene a mancare. Spero poi che con la mia testimonianza queste persone possano cambiare idea”. Un’altra ragazza chiede a Luca se non ha mai avuto un momento di sconforto dopo l’agguato: “No, non mi sono mai chiesto chi me lo ha fatto fare. E’ la solidarietà che mi dà la forza di continuare e continuare a credere negli ideali che mi hanno spinto ad indossare l’uniforme”. (Foto Francesco Maria Bienati)

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