Martedì 6 novembre negli USA si voterà per scegliere il nuovo Presidente di quella che è ancora una superpotenza mondiale, nonostante il suo ruolo sia intaccato su diversi fronti. Barack Obama e Mitt Romney, secondo quanto riporta il sondaggio di Pew Research Center, sarebbero distanziati di soli 3 punti percentuali, a favore dell'attuale presidente, ma la partita è ancora aperta, tenendo conto che i sondaggi hanno un margine di errore proprio del 3%. La campagna elettorale di questi ultimi mesi è stata inusuale nel suo schieramento di forze, anche per i canoni statunitensi: sono sei miliardi i dollari spesi da entrambi i contendenti nella campagna elettorale, secondo la Cnn. E il non avere certezze su chi sarà il futuro Presidente deriva anche dalla spasmodica attenzione dei due per studiare a fondo le strategie mediatiche migliori, senza tener conto di alcune contraddizioni della campagna stessa: per esempio, sono dieci gli stati chiave per vincere la corsa presidenziale (tra questi l'Ohio, dove Obama avrebbe un vantaggio del 4% sull'avversario); un numero esiguo, che dipende dalla configurazione demografica degli USA, visto che gli americani simili tra loro per cultura, appartenenza etnica e reddito tendono a vivere vicini. Si formano così due nuclei di stati (uno democratico sulle coste e uno repubblicano al centro-sud) in cui i candidati pensano che il consenso alle loro politiche e la fedeltà elettorale sia talmente alta che non valga la pena di fare nuovi proseliti, creando però frustrazione tra le popolazioni di questi stati, che progressivamente iniziano a sentirsi emarginate. E Obama e Romney hanno effettivamente un elettorato polarizzato: se l'attuale Presidente ha il pieno sostegno delle minoranze etniche ( per esempio, il 73% degli ispanici, secondo il sondaggio di Impremedia & Latinos decisions, sceglierebbero Obama, voto chiave negli stati del Nevada, Colorado, Virginia e Florida), Romney ha il consenso di numerosi americani bianchi, soprattutto di età avanzata, di molti professionisti e potrebbe ancora cercare di convincere gli elettori “indipendenti”. Le sue gaffe, però, sono state numerose e quasi leggendarie: una delle più decisive (elettoralmente parlando) ha coinvolto l'unico aspirante senatore repubblicano esplicitamente sostenuto da Romney, Richard Murdock, che ha definito “volute da Dio” anche le gravidanze provocate da uno stupro; la vicenda ha spinto molte donne, secondo gli opinionisti, a sostenere Obama. La posizione dei due candidati sull'aborto, a mio parere, è centrale proprio per comprendere come i due abbiano anche mistificato alcuni dati ed eventi pur di aumentare il numero dei propri sostenitori, screditandosi pubblicamente, tanto che Jimmy Carter ha ammesso candidamente che negli anni '80 del secolo scorso nessun candidato avrebbe attaccato così duramente l'avversario solo per veder crescere di poco le proprie “quotazioni”: Obama ha sostenuto che il 90% dell'attuale deficit degli USA sia colpa della presidenza Bush (in realtà, il 44% di deficit deriva dalle scelte dell'ultima amministrazione); Romney, da governatore del Massachusetts, aveva approvato una riforma sanitaria che aveva dei punti in comuni con quella fortemente sostenuta dal Presidente, ed era a favore dell'aborto, posizioni prontamente rinnegate. Il continuo scontro senza esclusione di colpi si è palesato nei tre confronti televisivi; il primo, centrato su temi economici, ha mostrato la capacità di Romney di mettere in difficoltà Obama proprio sul punto debole attuale degli Stati Uniti: la crisi economica americana non è conclusa e sono ancora lontani concreti segnali di ripresa, con la disoccupazione che tocca ormai l'8%. Il terzo confronto ha inserito prepotentemente nel dibattito i temi caldi della politica estera, terreno nel quale Obama si mostrava più sicuro dell'avversario, grazie all'esperienza accumulata nei quattro anni alla Casa Bianca. Romney, in difficoltà, ha ricordato in termini positivi la morte di Osama bin Laden, ricordando però (e a ragione) come il terrorismo non sia stato definitivamente sconfitto, anche se, contrariamente a Obama, la sua priorità nella politica mediorientale sarà assumere posizioni dure nei confronti dell'Iran e del suo programma nucleare, nonostante questo abbia caratterizzazioni più civili che belliche. Entrambi, comunque, hanno ribadito il loro sostegno militare a Israele se dovesse essere attaccata, e nessuno dei due ha citato l'Unione Europea, segno ancora che i temi cui è difficile trovare una soluzione univoca, sono stati lasciati da parte.