Il 7 dicembre alle ore 17:30 il tradizionale appuntamento con la Prima della Scala in diretta torna anche nella Sala della Comunità di Cuggiono. Ingresso gratuito e rinfresco nell’intervallo. Matteo Cassani ci porta alla scoperta di questo titolo verdiano.
Siamo nel gennaio del 1861, e Giuseppe Verdi, già uno dei più affermati e importanti compositori italiani, si trova ad affrontare due insistenti pressioni: da un lato Camillo Benso Conte di Cavour, che lo vuole al suo fianco nel primo Parlamento Italiano, e dall’altro sua moglie - Giuseppina Strepponi - a rinfacciargli un in-attivismo artistico che ormai dura dal 1859, quando il Maestro di Roncole completò Un Ballo in Maschera. In questo contesto arriva, quasi inaspettata, la proposta del Teatro Imperiale di San Pietroburgo, il quale vorrebbe commissionare a Verdi un’opera, lasciandogli carta bianca sul soggetto.
L’idea iniziale di Verdi è Ruy Blas (1838) di Victor Hugo (1802 - 1885), ma l’autore francese è oggetto di censura nella Russia dello zar. Di carattere tutt’altro che accomodante, il compositore rifiuta in malo modo la commissione, tanto da costringere il Teatro a tornare sui propri passi, e ad accettare, nel giugno 1861, lo “strappo alla regola” su Hugo, pur di avere Giuseppe Verdi a San Pietroburgo. Ovviamente non avevano fatto i conti con l’eclettico maestro, il quale nel frattempo era entrato in contatto con un’altra opera letteraria, Don Álvaro o la fuerza del sino del drammaturgo spagnolo Ángel de Saavedra y Ramírez (1791 - 1865), della quale si innamora fortemente, e che diventa la sua scelta, surclassando Hugo.
Presto fatto, è il dicembre 1861 quando Verdi e la moglie partono per San Pietroburgo con l’opera praticamente composta; la strumentazione Verdi conta di perfezionarla durante le prove. Ma ecco sorgere il primo ostacolo: Emma La Grua (1831 - 1922) - soprano di fama mondiale - che Verdi aveva scelto per interpretare il ruolo di Leonora, è indisposta, e non potrà partecipare alla sessione di prove. Di tutte le sostitute che il Teatro Imperiale propone a Verdi, nessuna di queste è ritenuta all’altezza dall’iracondo Maestro di Roncole, tanto che la rappresentazione dell’Opera viene rimandata alla stagione successiva.
Il 10 novembre 1862 viene portata in scena la prima versione di una delle opere più importanti e più “odiate” dal Maestro stesso. Infatti Verdi non è per niente soddisfatto della composizione, tanto da lamentarsi ampiamente con il suo editore italiano, Tito Ricordi, il quale prima propone di adattare una nuova versione per il Teatro alla Scala - offerta che Verdi rifiuta - poi, esasperato, consiglia al Maestro di concentrarsi su altro. Consiglio accettato di buon grado da Verdi, che nel frattempo comporrà la seconda versione di Macbeth (1865) e la prima versione di Don Carlo (1867). Ma nel 1868 i problemi drammaturgico/musicali della prima versione di La Forza Del Destino che tanto lo attanagliavano quale anno prima, ora finalmente appaiono chiari e risolti nella mente di Verdi; è il momento di rispolverare l’offerta di Ricordi, e portare al Teatro alla Scala una seconda versione dell’opera. E’ il 27 febbraio 1869.
Ma cosa rendeva la prima versione così indigesta allo stesso Verdi? I musicologi si sono a lungo interrogati su questo, e come spesso accade, le risposte sono molteplici. Innanzitutto, il pubblico russo. Ben esprime il concetto Gabriele Baldini quando nel testo Abitare la battaglia - la storia di Giuseppe Verdi” definisce la prima versione dell’opera un “eccesso di imitazione che porta Verdi a fare opera russa ante-litteram”. Verdi studia in modo attento e perspicace la cultura russa e il pubblico medio, e indubbiamente coglie quelle istanze socio-culturali che porteranno, di lì a qualche anno, alla nascita della cosiddetta “musica russa”, cioè quella musica di un popolo che, guardando al modello occidentale, vuole costruire una propria identità culturale anche attraverso un repertorio musicale dai caratteri delineati e specifici. In quel momento, il modello occidentale era indiscutibilmente rappresentato dalla musica tedesca, connotata da un forte anti-verdianismo, alla ricerca di una drammaturgia musicale diversa, più “libera” da schemi e dall’accademismo che aveva via via ingessato l’opera italiana. Verdi si trova davanti ad un pubblico, quello russo, molto diverso da quello occidentale, molto meno “sottile” e sofisticato, e molto meno legato ad aspettative e schemi che, invece, diventavano sempre più l’essenza dell’opera italiana. Senza dubbio questo spinge Verdi a cambiare modalità e a scrivere “non da Verdi”, componendo un’opera che, a ben guardare, effettivamente si distacca molto dal suo repertorio precedente e successivo.
Qualcuno tra i più audaci storici della musica ha anche pavimentato una possibile influenza tra Verdi e La Forza del Destino, e Boris Godunov di Modest Petrovič Musorgskij, senza dubbio l’opera russa per eccellenza, carica di quell’identità culturale di cui si è parlato sopra, che attinge a piene mani dal patrimonio etnico del popolo russo. Influenza tanto affascinante, quanto - a parere di molti musicologi, e anche di chi scrive - molto forzata. Nessuna prova va a suffragare tale ipotesi, così come nemmeno vi è la certezza che Musorgskij abbia mai concretamente visto o sentito La Forza del Destino. Inoltre, la distanza cronologica (La Forza del Destino è del 1861 mentre il Boris Godunov del 1874) affievolisce ancora di più tale ipotesi.
Ma ipotesi a parte, indubbiamente La Forza del Destino per Verdi è un’ostacolo enorme, che lo spinge ad andare oltre sé stesso, alla ricerca di uno stile nuovo e di strutture diverse, che non riusciranno a soddisfarlo pienamente, tanto da spingerlo, qualche anno dopo, a farne una seconda versione, più aderente al “Verdi occidentale”, ma che fondamentalmente non rinnega la sua origine difforme, in contrasto sia con il melodramma “vecchio stampo” italiano, sia con la Grand Opéra (Verdi ne rifiuterà una commissione parigina dell’Opera).
Gli elementi che più contraddistinguono il melodramma “verdiano” - dalla parola scenica alla tina unitaria - vengono spesso meno, inseriti in un contesto “diluito”, misto ad episodi collaterali apparentemente superflui, trattati e sviluppati con abnorme attenzione. Ne sono un esempio le numerosissime figure secondarie (Preziosilla, Melitone, Padre Guardiano) che vengono tratteggiate quasi come co-protagonisti, per spazio scenico e attenzione musicale.
Elemento che contraddistingue la produzione giovanile di Verdi, il “pessimismo” nei riguardi della società e della politica era già ben espresso in opere come Nabucco o Macbeth , ma via via era andato scemando con un più attento sguardo verso il Realismo della Trilogia Popolare (Rigoletto, Trovatore e Traviata). In un’opera che invece rappresenta un “unicum” nella produzione verdiana, torna come non mai, quando il soggetto porta inevitabilmente a riflettere sul concetto di destino. L’umanità ne La Forza del Destino è sospesa tra la follia della guerra e l’ansia di sopravvivere ad ogni costo e con qualsiasi espediente, quando il pessimismo di un destino ineluttabile e imperscrutabile si riversa in un mondo che ha perduto la ragione e la speranza. Innovativo è anche il modo in cui Verdi accosta - musicalmente e drammaturgicamente - questo elemento tragico ad una vena comica. Ne sono esempi tutti quei passaggi connotati da un linguaggio volgare e spudorato, il cui accompagnamento musicale ne è specchio, che il compositore alterna accostando tra loro figure moralmente ed eticamente “sublimi” con la desolazione e la confusione della peggiore umanità. “Complementary Opposite” avrebbe detto William Blake, ponendo gli estremi come l’uno lo specchio dell’altro. Ma la complessità degli opposti non basta a Verdi per spiegare un modo privo di ragione e speranza. Nella sua prima versione, Verdi è quasi “leopardiano” quando sussurra all’orecchio dell’ascoltatore che su tutto vige un destino ineluttabile, e che si salvano soltanto gli umili che hanno rinunciato alle passioni (come Preziosilla), coloro che si arrangiano nel caos (come Trabuco), e gli uomini di Chiesa (come il Padre Guardiano). E’ questa terza opzione che spinge Verdi, tormentato dai dubbi religiosi, ad abbracciare nella sua seconda versione l’idea manzoniana - con il quale, peraltro, il Maestro manteneva un profondo rapporto epistolare - di Provvidenza. E’ in Leonora, più che in qualsiasi altro personaggio, che questo percorso catartico si scioglie, e possiamo quasi toccare con mano questo progressivo allontanamento da un mondo senza speranza e senza amore, verso una progressiva elevazione; un percorso che parte dalla prima romanza che canta Leonora (“me pellegrina e orfana - Atto I), connotata da estrema convenzionalità, per arrivare poi a “Madre, pietosa Vergine” (Atto II), nella quale inizia un percorso di trascendenza, anche musicale, che si perfeziona ancora di più nel celebre brano “La Vergine degli Angeli”, fino all’aria “Pace, mio Dio” (Atto IV), una melodia eccelsa e “pura”, definitivo anelito prima di esalare l’ultimo respiro di rinuncia e sacrificio al mondo.